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Disordini nel carcere di Bari, Caiazza: «È la disfatta dello Stato. Rivolte e suicidi destinati ad aumentare»

«La vicenda di Bari non sorprende affatto. Anzi, sono certo che non si tratterà dell’unico episodio, viste le condizioni in cui vivono i detenuti e le misure recentemente varate dal governo Meloni»: ne è convinto Giandomenico Caiazza, avvocato tra i più affermati in Italia e per lungo tempo presidente dell’Unione delle Camere penali (Ucpi).

Avvocato, che cosa pensa dei fatti di Bari?

«Faccio una premessa: nessun atto di violenza o sopraffazione può essere accettato. Detto ciò, certi episodi drammatici sono la spia di una situazione esplosiva. Eppure qualche esponente del governo Meloni minimizza e si abbandona a dichiarazioni irresponsabili. Il sospetto è che manchi una totale comprensione della realtà».

E qual è la realtà?

«La realtà è fatta di dieci o 12 persone ammassate in celle che ne potrebbero contenere quattro con temperature che, al momento, sfiorano o addirittura superano i 40 gradi. Quelle dei detenuti sono condizioni di vita intollerabili e lesive della dignità umana, nelle quali può succedere qualsiasi cosa. Ecco perché episodi violenti come quello di Bari non sorprendono. Anzi, se ne verificheranno altri, come c’è da aspettarsi che anche i suicidi in cella aumenteranno».

Colpa del governo Meloni?

«La situazione delle carceri è la Caporetto dello Stato italiano. Ma questa disfatta ha molti padri, quindi non solo il governo Meloni. Di sicuro l’attuale esecutivo sembra aver firmato una cambiale con un certo elettorato. E questa cambiale impone parole d’ordine come “niente svuota-carceri” o una concezione della certezza della pena tutta orientata verso il carcere».

Quindi le misure recentemente varate dal governo Meloni per arginare il sovraffollamento sono insufficienti?

«A dir poco. Direi che sono provocatorie. Secondo il ministro Nordio, gli accordi volti a far sì che gli stranieri scontino la pena nel Paese di origine consentiranno di abbattere il numero dei detenuti di 5-10mila unità. Ma il ministro sa che significa identificare uno straniero, stipulare un accordo col suo Stato di provenienza e fare in modo che quest’ultimo gli faccia scontare la pena? Ancora, il ministro parla del trasferimento dei tossicodipendenti dalle carceri alle comunità. Ma sa che queste ultime sono da tempo al collasso? Certi annunci possono convincere chi non conosce la realtà del carcere, non altri. Non è serio dire certe cose».

Lei ha mai visitato il carcere di Bari?

«Con Ucpi e Radicali, oltre che per motivi professionali, ho visitato decine e decine di carceri. Inclusa la casa circondariale di Bari».

E che ricordo ne conserva?

«Ciò che accomuna tutte le carceri è l’odore nauseabondo che si percepisce al loro interno. E poi vedo ancora le persone ammassate, le brandine accatastate, i bagni a vista. Soprattutto, però, ricordo il senso di angoscia e di abbandono dei detenuti».

Una riflessione la meritano le Rems, visto che la rivolta di Bari ha avuto tra i protagonisti un paziente psichiatrico…

«Le Rems dimostrano come, in materia di detenzione, non ci sia una sola cosa dello Stato che funzioni. Perciò parlo di Caporetto dello Stato».

Come se ne esce?

«La proposta Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata mi sembra ragionevole. Consiste nell’aumentare i giorni di premio per i detenuti, in maniera tale da incrementare le scarcerazioni. Non sarebbe un meccanismo automatico, ma subordinato alla valutazione da parte del giudice e alla valorizzazione del comportamento positivo del detenuto. In questo modo, 10mila persone alle quali restano da scontare pochi mesi di reclusione potrebbero davvero abbandonare le celle».

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Editoriali L'Editoriale

La propaganda che calpesta la Costituzione

Che la politica considerasse il carcere come una sorta di discarica umana, era chiaro ormai da tempo. Che i penitenziari si fossero poi trasformati in piccoli campi di sterminio, in cui concentrare e sopprimere una fragilità sociale alla quale lo Stato non riesce a dare risposta, pure era evidente. Ma che un sottosegretario alla Giustizia potesse piegare il dettato della Costituzione alla propaganda, questo nessuno l’aveva ancora previsto. Eppure Andrea Delmastro è riuscito a “sorprendere” tutti. Non per la fotografia (pubblicata sui social e poi rimossa) in cui compare con una sigaretta in mano a pochi centimetri da un cartello che vieta il fumo nel carcere di Brindisi, ma per la becera precisazione fatta durante la visita al “Carmelo Magli” di Taranto.

Ai giornalisti, infatti, il sottosegretario ha precisato di trovarsi in quel luogo soltanto per incontrare gli agenti della polizia penitenziaria. Poi la “perla”: «Non mi inchino alla Mecca dei detenuti».

Definire semplicemente inopportune queste parole sarebbe un atto di clemenza che Delmastro ha dimostrato di non meritare. E questo per una serie di ragioni. La prima: il sottosegretario manifesta tutto il suo disprezzo nei confronti della popolazione carceraria nel momento in cui, in Italia, si è contato il 66esimo suicidio dall’inizio dell’anno. Proprio mentre Delmastro era in visita al “Magli” di Taranto, struttura dove il sovraffollamento ha superato il 182%, un 36enne tunisino si è impiccato a Parma. Non solo: ad Avellino si è registrata un’evasione, a Pescara un incendio in cella, a Biella un regolamento di conti, a Torino disordini al termine dei quali sei agenti sono rimasti feriti. Episodi che dimostrano come lo Stato non sia in grado di assicurare dignitose condizioni di vita ai detenuti e di lavoro al personale: una incapacità che Delmastro tenta maldestramente di nascondere puntando il dito contro i detenuti. Già, i detenuti: il sottosegretario dimentica che chi si trova in carcere è affidato alla custodia e alla responsabilità dello Stato, in particolare a quel Ministero che egli rappresenta.

Ma Delmastro sbaglia anche e soprattutto per un altro motivo: dialogando con la polizia penitenziaria e non con i detenuti, il sottosegretario manifesta la ferocia dai tratti securitari con certa destra, al pari di alcuni settori del campo largo, affronta il tema della devianza. Agli interrogativi posti dalla criminalità dilagante la politica non risponde se non mostrando il suo volto più truce, così da guadagnare qualche misero punto di consenso. E poco importa se la Costituzione vieta trattamenti inumani e degradanti.
Con quelle affermazioni, dunque, Delmastro piega la Carta, con tutti i diritti e le garanzie che essa sancisce e tutela, alla più bassa propaganda elettorale: una strategia che lo rende inadeguato al ruolo istituzionale che ricopre e che imporrebbe una netta presa di distanza da parte della premier Meloni e del ministro Nordio.

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Cronaca News Puglia

In aumento i minori denunciati o in cella, in Puglia è boom di ragazzi in carico ai servizi sociali

Altro che decreto Caivano. La norma approvata quasi un anno fa dal governo Meloni non sembra aver placato le baby gang che continuano a imperversare da Nord a Sud. La conferma è contenuta nei dati relativi a minorenni e giovani adulti in carico ai servizi minorili al 15 luglio scorso: in aumento sono sia i ragazzi denunciati penalmente sia quelli reclusi nei 17 penitenziari sparsi sul territorio nazionale. E la Puglia, ovviamente, non fa eccezione.

I numeri

Il dossier restituisce una fotografia impietosa. Nel distretto di Corte d’appello di Bari – che comprende non solo il capoluogo e provincia, ma anche la Bat e il Foggiano – i minori e giovani adulti in carico agli uffici di servizio sociale sono aumentati di 274 unità nel 2024, toccando addirittura quota 1.240. Dati in aumento anche in Salento, dove i minorenni “fragili” sono passati da 380 a 494, facendo segnare un incremento di 114 unità.

Aumento altrettanto evidente, sebbene più contenuto, a Taranto e dintorni, dove i ragazzi in carico agli uffici di servizio sociale sono passati da 218 a 286, cioè 68 in più. Non se la passa meglio il Potentino, dove i ragazzi “difficili” risultano quasi raddoppiati: da 182 a 325 in poco più di sette mesi. Poco incoraggianti anche le statistiche relative alle presenze negli istituti penali per minorenni: al 15 luglio scorso erano 32 gli ospiti del “Fornelli” di Bari e 17 quelli nella struttura di Potenza.

Il decreto Caivano

I numeri certificano il fallimento del decreto Caivano, approvato nell’autunno del 2023 con l’obiettivo di contrastare la criminalità giovanile. Ne è convinto Raffaele Diomede, educatore pedagogista ed esperto in devianza minorile, secondo il quale quella norma ha addirittura compromesso la struttura della giustizia minorile italiana così come concepita dal legislatore che, nel 1988, aveva orientato il processo minorile al superiore interesse del fanciullo. «Quell’approccio – spiega Diomede – subordinava il potere punitivo alla ricerca del percorso migliore per il recupero del giovane. Oggi si ha l’impressione che la legge 159 di conversione del decreto Caivano rinunci a quell’attenzione individualizzata che noi operatori riuscivamo a garantire».

Il carcere

A destare preoccupazione sono anche le risse recentemente scoppiate nel “Fornelli” in cui, come denunciato coordinamento sindacale penitenziario Cosp, si ritrovano minori stranieri non accompagnati, giovani con problemi psichiatrici, ragazzi con alle spalle storie tragiche o dipendenti da alcol, droga e psicofarmaci. «Per loro sarebbe necessario un altro tipo di intervento, dunque non solo la privazione della libertà – continua Diomede – La giustizia riparativa è statisticamente più efficace in termini di diminuzione sensibile delle recidiva rispetto a sbarre e manette».

La proposta

Insomma, servono strategie differenti davanti a una moltitudine di giovani che esprimono il loro disagio picchiando, denigrando, violentando e controllando piazze di spaccio come sul set di “Gomorra”. «Fondamentale è potenziare i servizi dedicati all’area penale minorile e a rischio devianza – conclude Diomede – anche attraverso una serie di interventi strutturati e complementari che non riguardino solo i percorsi formativi, ma che sostengano percorsi culturali e di orientamento alla bellezza, all’affettività, alla dimensione sociale e a quella introspettiva che, dopo la pandemia, rappresenta la principale urgenza da affrontare».

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Editoriali L'Editoriale

Cosa ci dice il voto di Potenza

Pochi temi fanno emergere le contraddizioni che dilaniano le forze politiche come l’autonomia differenziata. E il voto con cui il Consiglio regionale della Basilicata si è schierato contro il referendum abrogativo della legge Calderoli ne è la dimostrazione. Partiamo dai centristi. I vertici nazionali di Azione e Italia Viva non hanno mai nascosto la propria contrarietà alla riforma. In Basilicata, però, Azione, partito il cui nome già contiene il germe del protagonismo politico, ha preferito rimanere inerte, con Pittella e Morea che ieri si sono astenuti. Italia Viva, invece, ha scelto di non farsi… viva, con Polese che ha addirittura disertato la seduta del Consiglio. Paradossi linguistici a parte, i centristi hanno così consentito al centrodestra di allontanare la prospettiva del referendum. Alle contraddizioni non sfugge nemmeno il governatore Bardi che, subito dopo la definitiva approvazione della legge Calderoli da parte della Camera, non aveva nascosto le proprie perplessità. Ieri, invece, il presidente lucano si è sperticato in dichiarazioni di convinto sostegno dell’autonomia differenziata già prima che il Consiglio si pronunciasse. E poi c’è il centrosinistra. Lo stesso che difende la Costituzione, ma poi si oppone all’applicazione della norma che consente l’autonomia differenziata. Lo stesso, inoltre, che nel 2001 riformò il Titolo V della Carta spalancando le porte al regionalismo differenziato che adesso contesta. E chi paga il conto di tutto ciò? Tutta l’Italia, incluse le Regioni, che mai come oggi avrebbero bisogno di un dibattito sulle riforme serio, senza ideologismi e opportunismi.

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