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L’agosto difficile dei 5 stelle

Gli account social di Giuseppe Conte hanno perso in questo mese circa 7mila follower. A pagare il dazio più pesante è stato il profilo Instagram che è stato abbandonato da 3.227 follower e mancano ancora una decina di giorni alla fine di agosto. In verità, anche a Beppe Grillo non è andata proprio bene con altrettanti defollowing.

Comunque, a voler essere leggermente superstiziosi, attitudine in politica da sempre molto diffusa, agosto non è proprio un mese fortunato per Giuseppe Conte e per il MoVimento 5 Stelle. Nel 2018 ci fu il tragico crollo del ponte Morandi a Genova che causò non poche difficoltà al neonato esecutivo giallo-verde. L’anno successivo poi, nel 2019, il leader leghista Matteo Salvini, fino ad allora solido alleato, decise di aprire una improvvisa crisi “balneare” che portò alla conclusione anticipata del primo governo guidato da Giuseppe Conte e alla nascita di una nuova maggioranza con l’ingresso del Partito democratico, Articolo Uno e Italia Viva.

Così, la maledizione agostana si è ripresentata con tutto il suo carico di tensioni e fibrillazioni varie anche nel 2022. In quest’ultima occasione fu l’enfant prodige Luigi Di Maio a rinnegare l’ideologia grillina e trascinarsi in Impegno Civico, lista di scopo nata a sostegno dell’alleanza di centrosinistra, una numerosa pattuglia parlamentari grillini.

Questa volta, invece, a rovinare le tre settimane di vacanza che Giuseppe Conte solitamente trascorre nella sua Puglia, ci ha pensato direttamente e senza mezzi termini Beppe Grillo. Il fondatore e garante del M5S ha chiarito che «il simbolo, il nostro nome e la regola del secondo mandato, i tre nostri pilastri, non sono in nessun modo negoziabili, e non possono essere modificati a piacimento. Sono il cuore pulsante del MoVimento 5 Stelle, il nostro faro nella tempesta. Cambiarli significherebbe tradire la fiducia di chi ha creduto in noi, di chi ha lottato con noi, di chi ha visto in noi l’unica speranza di cambiamento reale».

La risposta di Conte, ovviamente, non si è fatta attendere rimettendo nelle mani degli iscritti la scelta delle nuove regole, nome compreso. Lo scontro a distanza tra i due leader pentastellati però ha eroso, per ora solo di qualche migliaio, la base dei rispettivi account social. Infatti, Giuseppe Conte dal primo al 22 agosto, ha lasciato sul selciato social ben 3.078 follower anche su Facebook che si sommano a quelli persi su Instagram e TikTok. Altrettanto, l’account X di Beppe Grillo è “dimagrito” di 2.174 follower, mentre la pagina Facebook si è assottigliata di altri 1.206 unità. Per ora, va detto, si tratta ancora di poca cosa rispetto ai milioni di follower, ma rimane significativo il fatto che questo calo sia conciso con un nuovo momento di tensione che evidentemente lascia disorientata la base dei militanti e dei follower.

Momenti di tensione anche a Bari, dove la nomina di Raffaele Diomede non è andata giù ai due consiglieri comunali eletti Italo Carelli e Antonello Delle Fontane che, in aperta polemica col segretario provinciale Raimondo Innamorato, hanno deciso di uscire dalla maggioranza del sindaco Vito Leccese: una vicenda che rischia di aprire una frattura insanabile all’interno del M5S anche a livello locale.

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Una pedagogia dei social per evitare nuove forme di totalitarismo

Maneggiare con cura. Tenere lontano dalla portata dei minori. Leggere attentamente le avvertenze prima dell’uso. Possibili effetti indesiderati in taluni soggetti. Così come nei libretti di istruzioni per il montaggio fai da te dei mobili componibili o di altre attrezzature o come nei bugiardini per pomate, sciroppi e pillole varie, anche sulle piattaforme social dovrebbe esserci in bella evidenza una sezione per ricordarci che tutto ciò che pubblichiamo rimane alla mercé di tutti.

Un post non finisce mai nel cestino, nel cassone che teniamo in soffitta e che nessuno può aprire senza il nostro permesso. Il post è sempre lì, sottotraccia, in agguato pronto a ritornare in vita per altri fini e per altre mani per ricordarci tutte le nostre fragilità, debolezze e i nostri istinti più primordiali. Questa volta, l’effetto boomerang l’ha pagato a caro prezzo Carlotta Nonnis Marzano che il sindaco di Bari, Vito Leccese, aveva nominato assessora al Clima e alla Transizione ecologica, in quota Alleanza Verdi Sinistra. Nonnis Marzano non ha fatto neanche in tempo a prendere possesso del suo ufficio a Palazzo di città che ha dovuto rinunciare all’incarico, perché a poche ore dalla sua presentazione si è innescata sui social un’aspra battaglia a base di screenshot, cioè di foto che riprendevano alcuni dei post pubblicati in passato dalla neo-assessora contro diverse personalità politiche o come quello contro il Papa.

È partita quindi con la solita velocità e con toni sempre più duri la carovana della delegittimazione che ha poi indotto il primo cittadino barese a fare retromarcia e trovare la via di uscita diplomatica della rinuncia alle deleghe da parte della stessa Nonnis Marzano.

Ciò che è successo a Bari però è solo l’ultimo dei molti episodi in cui la nostra presenza e la nostra identità digitale, paradossalmente, ci si può ritorcere contro. Nonnis Marzano non è stata la prima e non sarà certo l’ultima. Come non rammentare alla vigilia delle passate elezioni politiche i tweet che costarono la candidatura nel collegio plurinominale della Basilicata alla Camera e l’elezione certa in quanto capolista a Raffaele La Regina, il 29enne segretario regionale del Pd lucano che fu travolto da una serie di post in cui ironizzava sullo Stato d’Israele, mettendone in dubbio l’esistenza come nel caso degli alieni. Successivamente, la valanga virale portò alla luce anche altri commenti anti-Israele.

Molto spesso abbiamo parlato dei danni e dei guasti che le piattaforme social possono causare ai più giovani, alla dipendenza che creano negli adolescenti, cioè nelle giovani generazioni che non hanno tutti gli strumenti e la formazione per poter distinguere, per riuscire a “zavorrare” i sentimenti più viscerali, ma ancora poco si è discusso di quanto anche nelle persone che per età e per competenze dovrebbero poter tenere a freno le reazioni più tribali i social network innescano invece comportamenti davvero pericolosi. Ci vuole una pedagogia dei social che abbia tutti noi come scolari, nessuno escluso. Perché, come ricorda Antonio Palmieri in un suo illuminante volume di qualche anno fa, “Social è Responsabilità”, le piattaforme possono generare un “incremento del fanatismo e una chiusura mentale, spalancando la via ad un nuovo totalitarismo delle idee”. Postare le nostre idee e ricevere dei like può essere anche esaltante per il nostro egotismo, grazie alla scarica di dopamina che ne ricaviamo, ma ciò non deve farci dimenticare che quel pensiero galleggerà per sempre nella infosfera digitale.

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Basta con alibi e pregiudizi, ricordiamo la lezione di Guido Dorso

Esattamente un secolo fa, eravamo a fine luglio del 1925, Guido Dorso mandava in stampa la sua “Rivoluzione Meridionale”, per conto dell’omonima casa editrice fondata da Piero Gobetti. In quel saggio, il più importante tra gli scritti dello studioso e politico irpino, Dorso riprendeva e sviluppava in modo definitivo e completo un altro suo testo, “Appello ai meridionali”, che invece aveva pubblicato il 2 dicembre del 1924 sulla prima pagina de “La Rivoluzione Liberale”. “La riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud – scrivono sul “Corriere della Sera” del 21 luglio scorso – perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Nel Mezzogiorno, i politici locali sembrano governare in consorterie di potere in cui si aggregano interessi particolari più che istanze e politiche generali. Con l’autonomia differenziata – concludono Drago e Reichlin – gli incentivi alla formazione di classi dirigenti nel Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono. Con o senza richiesta di autonomia, i politici locali si troveranno impreparati o deresponsabilizzati”. Se ci si sofferma a leggere la tesi degli economisti Francesco Drago e Lucrezia Reichlin, a proposito di autonomia differenziata e classi dirigenti meridionali, sembra che a sud del Tevere la situazione non sia mutata in nulla. Gli stessi difetti atavici permangono come chiodi arrugginiti nelle travi marce di un solaio pronto a crollare e le medesime tare continuano a minare la condotta pubblica delle classi dirigenti.

Insomma, nel loro ragionamento prende corpo un determinismo antropologico a prescindere, comprovato dalla fluidità del voto dei meridionali sempre a caccia di nuove prebende e pronti a dare credito solo a quei padrini politici che promettono mari e monti, che diventa l’alibi peggiore per rinunciare in nuce al progetto di riforma sull’autonomia differenziata. Il trasformismo interessato e non hegeliano che Guido Dorso rimproverava duramente alle classi dirigenti delle regioni meridionali, pronte a “creare durature combinazioni politiche, cementando gli interessi di qualche gruppo del Nord con gli affari di tutti i ladruncoli dichiarati contabili del Sud”, riemerge con tutto il suo anacronismo pedagogico nella analisi dei due economisti. Però, mettendo anche da parte questa spocchiosa pigrizia utilizzata per descrivere sinteticamente la pluralità della classe dirigente meridionale, che può essere raccontata come tutta brutta e cattiva solo se si è in malafede, va detto che se questa impostazione ha un suo fondamento, allora se ne deduce una conseguenza più ampia e pericolosa che quale i politici e gli amministratori campani, pugliesi, calabresi, molisani e lucani dovrebbero rispedire sdegnosamente ai mittenti. Perché a questo punto, se siamo così inadeguati e impreparati, tanto da “prevedere che più autonomia per queste Regioni peggiorerebbe lo status quo”, allora è chiaro che il tema non riguarda più solo la riforma disegnata da Calderoli e votata dal Parlamento, ma investe tutto il rapporto devolutivo tra lo Stato centrale e le inefficienti Regioni meridionali. Drago e Reichlin, pur di legittimare l’avversità all’autonomia differenziata, finiscono per gettare via con l’acqua sporca anche il bambino quando, al contrario, dovrebbero fare uno sforzo per “eccitare la formazione della nuova classe dirigente – come si proponeva Guido Dorso – ed educarla al disprezzo della vittoria nascente dal compromesso”.

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L’esegesi del pensiero meloniano

Per il primo numero di agosto sulla copertina di Chi, il “settimanale people più letto d’Italia che racconta le storie dei personaggi più amati e seguiti dal pubblico” – come si legge dalla scheda editoriale pubblicata sul sito della Mondadori – ci sono Chiara Ferragni e il suo manager Silvio Campara e il loro presunto flirt, poi Francesco Totti e Noemi Bocchi impegnati a lavare le tapparelle di casa, il principe Harry e la consorte Meghan Markle, ma soprattutto c’è lei, Giorgia Meloni.

La presidente del Consiglio risponde alle domande di Giulia Cerasoli e fa “un bilancio in totale trasparenza e con lo stile diretto che la caratterizza” dei suoi due anni a Palazzo Chigi. Una intervista molto lunga, ben sette pagine, corredata da dodici fotografie che raccontano sia alcuni dei momenti pubblici che privati vissuti dalla premier.

Adesso, la maggior parte degli analisti e degli osservatori politici si è catapultata nello studio filologico, matto e disperatissimo, delle risposte dettate dalla Meloni, così come nell’estrazione dei possibili non detto o delle velate allusioni che di certo qualche bravo opinionista politica riuscirà a scovare e a evidenziare.

Però, questo esercizio interpretativo che potrebbe farci comprendere in anticipo le future evoluzioni dello scenario politico italiano nei prossimi mesi, rimane circoscritto a un pubblico ristretto. Ecco perché il dato più interessante dell’intervista a Giorgia Meloni, non è tanto il contenuto in sé, quanto paradossalmente lo diventa il contenitore.

È la scelta di affidare a un settimanale gossiparo, di voyeurismo patinato la propria immagine, senza temere che questa cornice popolare le possa far pagar dazio, in termini di reputazione.

Anzi, nella logica mediale e narrativa di Giorgia Meloni di voler essere al contempo un leader politico e una celebrità di tutti i giorni, che non crea distanza e distacco, quindi immersa come qualunque altro di noi, suoi follower e concittadini, negli affanni e nella logorante routine quotidiana, non c’era una soluzione migliore di questa.

La matrice editoriale del settimanale diretto da Alfonso Signorini è la sintesi perfetta di questa visione disintermediata della celebrità contemporanea, a prescindere dall’ambito in cui si esercita, spettacolo, sport, cultura o politica.

Ogni settimana, il lettore-spettatore sfogliando le pagine di Chi porta a compimento quel processo di immedesimazione orizzontale, di latente condivisione delle medesime emozioni vissute dai suoi Dip, i digital important person, che hanno rimpiazzato i vetusti Vip, e che a tutte le ore del giorno può incontrare online sull’uscio della propria bacheca. Se così stanno le cose, allora è chiara l’importanza strategica del contenitore, del mezzo che diventa esso stesso messaggio, giusto per citare il più celebre dei principi descritti dal sociologo canadese Marshall McLuhan, per dare forza e credibilità al racconto meloniano di questi anni.

Non di meno, c’è da considerare almeno altri due aspetti, nient’affatto marginali per un leader politico, che sono legati alla scelta di rispondere alle quindici domande di Chi.

Innanzi tutto, l’intervista ha consentito di allargare la platea dei pubblici che solitamente possono essere raggiunti mediante i canali convenzionali, ma in particolare, di affrontare temi specifici, come la maternità o la condizione femminile nel mondo del lavoro sui quali la Meloni si è opportunamente soffermata, raggiungendo dei lettori che li considerano potenzialmente prioritari e che mai avrebbero comprato e letto, con leggerezza e interesse, le pagine di un quotidiano come la Repubblica, il Corriere o la Stampa.

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Non banalizzate il dibattito sulle riforme

È passata una settimana da quando anche la Regione Puglia – dopo la Campania, l’Emilia-Romagna, la Toscana e la Sardegna – ha dato il via libera alla richiesta di referendum abrogativo per la legge nazionale sull’autonomia differenziata, fortemente voluta dalla Lega e accettata, con tiepido entusiasmo, dalle altre forze del centrodestra. Il Consiglio regionale della Puglia ha votato a favore, nonostante il parere contrario espresso nei giorni precedenti dalla Commissione che si occupa proprio delle riforme. Certo, restano da individuare i delegati incaricati di presentare formalmente il quesito referendario, ma con l’adesione della Puglia tutte e cinque le Regioni a guida progressista si sono schierate contro la riforma disegnata dal ministro Roberto Calderoli e approvata a maggioranza dal Parlamento.

Fin qui tutto chiaro, così come era scontato questo “allineamento celeste” delle amministrazioni regionali di centrosinistra. Solo che anche questa volta, come è capitato in passato in tante occasioni, noi italiani abbiamo trasformato tutta la discussione sul provvedimento politico in un dibattito morale, un tempo si sarebbe preferito dire “ideologico”.

Così anche il tema dell’autonomia differenziata, a prescindere dai rischi reali e presunti che ne possano derivano alla nostra unità nazionale, cuore pulsante della Costituzione repubblicana, all’esasperazione delle disuguaglianze ataviche che zavorrano lo sviluppo uniforme dei territori, è diventata sin da subito l’alibi perfetto per una contrapposizione di piccolo cabotaggio. Dall’essere guelfi contro ghibellini, comunisti contro democristiani o semplicemente innocentisti contro colpevolisti, siamo saltati a piè pari in una nuova e irrilevante dicotomia tra leghisti veri, presunti o di riflesso, promotori e fautori del progetto dell’autonomia, e deluchiani, ovvero discepoli del presidente della Campania Vincenzo De Luca, capopopolo irruente e oppositore della norma. Una legge approvata probabilmente più per dare in pasto ai propri elettori una parvenza di efficientismo che per un’ampia e condivisa visione di adeguare ai tempi e alla società contemporanea le competenze tra i diversi livelli istituzionali del Paese. Ecco, il banco di prova dell’autonomia differenziata invece di produrre un dibattito intenso, di rigenerare le palestre formative dove far crescere la nuova classe dirigente, in particolare al Sud, si è ridotto a una sterile contrapposizione tra leghisti da una parte e deluchiani dall’altra, tra nordisti che vogliono tenersi strette le loro risorse fiscali e meridionalisti straccioni, che sbraitano per l’ennesimo furto subito.

Nella più nobile delle tensioni, invece riusciamo a dividerci tra progressisti, interessati alla bandiera dell’unità nazionale, dimenticandoci che qualche anno prima avevamo indossato la maglietta sulla quale oggi vomitiamo, e pericolosi fascisti, interessati a penalizzare il Sud e le sue popolazioni. Questo è il nostro limite più grande, ma è anche il limite più evidente che la riforma ha fatto riemergere e che ci penalizzerà fino a quando, come italiani e meridionali, non saremo capaci di mondare una volta e per tutte.

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