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Dispositivi medici e payback, Dentamaro: «L’impatto sulle imprese è pesante» – L’INTERVISTA

Con due sentenze pubblicate il 22 luglio 2024, la Corte Costituzionale è intervenuta sul meccanismo del payback sui dispositivi medici, dichiarandone la legittimità costituzionale. La questione era stata sollevata dal Tar Lazio il 24 novembre 2023, dopo che erano pervenuti circa 2mila ricorsi promossi dalle aziende del settore. A spiegare le conseguenze di tali sentenze è l’avvocato Nicola Dentamaro.

Come possiamo inquadrare la questione dal punto di vista legale?

«Le sentenze sono state due, e una ha avuto conseguenza diretta sull’altra. Per spiegarlo va prima fatta una ricostruzione degli ultimi due anni: il governo ha stanziato un fondo che copriva il 52% degli importi richiesti alle aziende per il payback. A fronte dei due miliardi richiesti l’importo era stato dunque ridotto a un miliardo con decreto legge. Questo prevedeva un termine per accettare il beneficio dello sconto a fronte della rinuncia di tutte le aziende ai ricorsi proposti dinanzi al Tar Lazio. Il decreto è stato impugnato con richiesta di rinvio alla Corte costituzionale, che con la prima delle due sentenze che abbiamo citato, ha statuito che è illegittimo il termine per l’accettazione. Più in dettaglio ha esteso il miliardo di riduzione a tutte le aziende, sia che avessero accettato il beneficio dello sconto sia che avessero proseguito i ricorsi. È stata applicata in maniera piana, a tutti gli importi, una riduzione del 52%. Le due sentenze sono collegate perché la Corte costituzionale, chiamata a valutare la proporzionalità e la ragionevolezza del provvedimento, ha stabilito che, data la riduzione stabilita del 52%, gli importi previsti per il periodo 2015-2018 risultano proporzionali e ragionevoli».

Quali sono le conseguenze?

«Da un lato la Corte ha dato la possibilità a tutte le aziende di aderire alla riduzione del 52%, dall’altro lato ha tolto dicendo che il payback è legittimo perché proporzionale. Forse sarebbe stato meglio che nessuno avesse impugnato quella prima legge. L’esito sarebbe stato diverso in termini di proporzionalità. Ma questa mi sembra più una sentenza politica che giuridica. L’impatto sulle imprese sarà pesantissimo: in questo settore sono quasi tutte piccole e medie realtà con fatturati non troppo alti. Quella che viene richiesta dallo Stato e una liquidità da versare immediatamente. Si tratta di un problema reale, anche perché lo Stato si è assicurato di avere un sistema di recupero coattivo di queste somme: il payback prevede che, laddove le aziende non dovessero pagare, le Asl possono interrompere il saldo delle forniture. Le aziende dunque sarebbero obbligate a continuare a fornire dispositivi a pena di incorrere nell’interruzione di pubblico servizio, che è un reato penale, ma possono non essere pagate fino al raggiungimento dell’importo dovuto».

La sentenza della Corte parla di contributo di solidarietà.

«Non so come si possa parlare di contributo di solidarietà nel momento in cui la sanità viene rifornita da diversi tipi di soggetti, invece sono stati attinti dalla norma soltanto chi fornisce dispositivi medici, la parte più importante della fornitura della sanità pubblica. E chi dovrebbe essere un asse strategico viene invece penalizzato. Al contrario delle aziende del privato accreditato che non vengono toccate da queste sentenze ma che usufruiscono lo stesso delle finanze pubbliche».

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Dispositivi medici e payback, Guida: «Non possiamo essere penalizzati» – L’INTERVISTA

«Le sentenze della Corte gettano le aziende fornitrici di dispositivi medici in una situazione di grande incertezza economico-finanziaria». A lanciare l’allarme sul tema del payback dei dispositivi medici è Grazia Guida, presidente Aforp.

Quali sono le conseguenze del provvedimento sul settore?

«Dopo la sentenza della Corte costituzionale, che parla di “contributo di solidarietà” e di “legittimità”, siamo posti di fronte a una riflessione: se di solidarietà si tratta perché viene richiesta solo ad alcune aziende del settore sanitario? Il contributo di solidarietà in questa veste va ad impattare sul discorso economico-finanziario di ogni azienda, piccola o grande che sia. Non essendo questa una tassa caricata e riconosciuta come costo, le aziende che hanno pagato le tasse per gli anni considerati non avevano riconosciuto il costo e quindi riporteranno un danno aziendale. Molti chiuderanno, altri dovranno ricorrere a debiti finanziari, altri necessariamente rivedere il loro piano strategico, o gli investimenti in tema di innovazione o di assunzioni. Le aziende non possono essere chiamate a coprire da sole uno splafonamento che serve a coprire dei bisogni. Va anche notato che quelle regioni che hanno sforato la spesa, sono le regioni che hanno dato più sanità pubblica. Le regioni come la Lombardia che si appoggiano di più sulla sanità privata, non hanno questa quota da restituire, perché non risulta che abbiano sforato la spesa sanitaria. Mi pare che si tratti di una specie di federalismo camuffato di cui non avevamo contezza».

In Puglia di che numeri parliamo?

«Tra aziende fornitrici dirette e indotto parliamo quasi di 3mila realtà imprenditoriali. Noi abbiamo spedizionieri, vettori terzi verso l’estero e il resto d’Italia, agenti a cui si somma tutto l’indotto. Destabilizzando così i bilanci di queste imprese si va a depotenziare tutto il sistema. Se di contributo di solidarietà dobbiamo parlare, questo può essere mai pari al 48% di uno splafonamento? Un’azienda non può vivere in una condizione di incertezza economico-finanziaria del genere. Nel momento in cui le piccole aziende, che sono la spina dorsale del paese vengono meno, nemmeno i giovani saranno attratti a rimanere sul territorio. Il nostro è un settore altamente qualificato e specialistico, che si apre alle professioni delle bio-ingegnerie, a quelle infermieristiche. Tutto potenziale che andrebbe perso».

Quali sono le vostre richieste?

«Noi chiediamo innanzitutto al governo e al ministero delle Imprese che vi sia un tavolo di crisi nazionale che coinvolga tutti gli attori in campo e che ci venga riconosciuto di essere un asse strategico per il Paese. Bisogna scrivere una nuova pagina di storia».

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Dispositivi medici e payback: le sentenze che mettono in crisi le imprese del settore

La decisione della Consulta di dichiarare legittimo il payback sui dispositivi medicali, respingendo le ipotesi di incostituzionalità sollevate dal Tar del Lazio, ha messo in allarme le imprese del settore. Secondo gli addetti ai lavori, infatti, l’obbligo a loro carico di risanare parte degli eccessi della spesa regionale per i dispositivi medicali, potrebbe determinare una crisi del settore con conseguenti chiusure e tagli del personale, soprattutto nelle aziende medio-piccole.

L’origine del problema

Il sistema del payback si è affacciato in Italia per la prima volta nel 2011, quando fu sancito per legge che, in caso di sforamento da parte di una regione dei tetti di spesa per i dispositivi medici, la regione stessa ripianasse i debiti. Il payback vero e proprio, è stato introdotto nell’ordinamento solo nel 2015, ma è rimasto di fatto inattuato per sette anni, sino a quando, nel 2022, con una serie di provvedimenti sono stati, a posteriori, fissati i tetti di spesa per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018, certificati gli sforamenti e infine richiesti, da parte delle singole Regioni, i pagamenti alle aziende che forniscono tali prodotti al servizio sanitario.

A seguito delle richieste di pagamento, sono stati promossi, davanti al Tar Lazio, circa 2mila ricorsi da parte delle aziende del settore e, all’esito di alcune udienza “pilota”, il Tar ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della disciplina sul payback. La Corte costituzionale si è infine espressa sulla legittimità della norma, con grande insoddisfazione delle aziende del settore, che temono per la loro sopravvivenza.

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Bene le recenti innovazioni fiscali ma dal Governo serve più chiarezza

Il recente decreto correttivo che modifica il concordato preventivo biennale con il Fisco, promosso dal viceministro Maurizio Leo, ha introdotto importanti innovazioni per rendere lo strumento più attraente per i contribuenti, in particolare per chi opera in regime forfettario o è soggetto agli indici sintetici di affidabilità fiscale (ISA). Il governo ha cercato di evitare un flop dell’iniziativa, che avrebbe ridotto le entrate previste. Tra le modifiche più rilevanti, il decreto introduce una flat tax incrementale sul maggior reddito proposto dall’algoritmo delle Entrate rispetto all’anno precedente, con aliquote variabili dal 10% al 15% a seconda del punteggio ISA del contribuente. Questo intervento mira a rendere il concordato più appetibile, soprattutto per professionisti e piccole imprese che prevedono un aumento significativo del reddito nel 2024 e 2025. La semplificazione fiscale attraverso aliquote ridotte rappresenta un passo importante, riducendo la burocrazia e permettendo una redistribuzione della ricchezza più equa.

L’analisi

Tuttavia, emergono criticità: il governo, per ottenere consenso e risorse, ha introdotto queste modifiche con una certa fretta. La poca chiarezza su alcuni aspetti applicativi e la necessità di aggiustamenti rischiano di compromettere l’efficacia dello strumento. Un altro punto critico è l’applicazione della flat tax incrementale, che potrebbe avvantaggiare principalmente i contribuenti capaci di fare previsioni accurate sui redditi futuri, lasciando indietro chi non dispone degli strumenti per tali calcoli. Questo potrebbe aumentare il divario tra i vari segmenti della popolazione fiscale, andando a discapito dell’equità. Ad esempio, un professionista con un punteggio ISA alto che prevede un incremento significativo del reddito potrebbe beneficiare di una flat tax del 10% sul reddito aggiuntivo. Un risparmio fiscale significativo, che rende evidente l’attrattiva del concordato. Tuttavia, se dichiarasse un reddito ulteriore rispetto a quello concordato, non pagherebbe alcuna imposta su questo reddito ulteriore, risparmiando fino al 43%, sollevando dubbi sull’equità. Questo risparmio fiscale può essere visto come una riduzione del contributo al bene comune. Inoltre, la flat tax riduce l’aliquota marginale IRPEF al 43%, ma anche le addizionali comunali e regionali, sottraendo risorse alle amministrazioni locali. La disparità di trattamento è evidente anche tra i contribuenti con punteggi ISA inferiori, che vedrebbero applicate aliquote più alte, riducendo il loro vantaggio fiscale rispetto a quelli con punteggi più alti. Questa progressività potrebbe sembrare equa, ma rischia di penalizzare chi è considerato meno affidabile dal fisco, pur essendo in difficoltà economiche reali. Un ulteriore aspetto poco chiaro riguarda il futuro dell’accordo fiscale: sebbene sia prevista una proroga di due anni dopo il primo biennio, non è specificato se la base di calcolo sarà il reddito effettivamente dichiarato negli anni precedenti o quello stabilito nell’accordo. Questa incertezza potrebbe disincentivare alcuni contribuenti dall’aderire al concordato, poiché non sanno se potranno rivedere i termini del loro accordo fiscale in futuro.

Le modifiche

Sarebbe opportuno estendere la forfettizzazione del reddito a una platea più ampia, non solo su base volontaria, ma come un sistema integrato e nazionale. Questo potrebbe essere realizzato introducendo parametri oggettivi che tengano conto della capacità reddituale del singolo contribuente e del contesto in cui opera, come la zona di residenza, le proprietà e la composizione familiare. Una riforma di questo tipo permetterebbe di sintetizzare in modo più accurato il reddito imponibile, rispondendo ai principi di giustizia fiscale e redistribuzione della ricchezza. Sebbene sia giusto accogliere con favore le innovazioni introdotte dal concordato preventivo biennale, è fondamentale continuare a riflettere su come migliorare ulteriormente il sistema fiscale, affinché diventi più semplice, ma anche più giusto e accessibile per tutti i cittadini, superando le criticità attuali e garantendo una reale equità.

Vincenzo Castellano è fiscalista

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Debiti con l’erario, le strade per raggiungere un accordo con il “Decreto correttivo”

Il “Decreto correttivo al Concordato preventivo biennale” è entrato in vigore il 6 agosto 2024, e introduce una serie di modifiche sostanziali al sistema fiscale italiano. Il decreto apporta numerose novità, tra cui spicca la proroga della rottamazione-quater. Il termine per il pagamento della rata viene posticipato al 15 settembre del 2024 con una tolleranza di 5 giorni. Il decreto introduce anche un nuovo strumento di accertamento, definito informalmente “Accertamento sintetico 2.0” e che manda in pensione il redditometro. Questo meccanismo si attiva quando lo scostamento tra il reddito dichiarato e gli indici presuntivi supera la soglia di 70mila euro. Il reddito complessivo accertabile dovrà eccedere di almeno 1/5 quello dichiarato e, comunque, di almeno 10 volte l’assegno sociale annuo, il cui importo sarà aggiornato biennalmente in base agli indici Istat.

Il concordato preventivo

Per quanto riguarda il concordato preventivo biennale, viene chiarito che i debiti tributari o contributivi da considerare per l’accesso al concordato sono quelli definitivamente accertati o derivanti da atti impositivi non più impugnabili, comunque inferiori a 5mila euro. Non rilevano i debiti oggetto di provvedimento di sospensione o di rateazione fino alla decadenza dei relativi benefici. Inoltre, per le imprese è prevista la possibilità di riportare in avanti le perdite fiscali conseguite nei periodi oggetto di concordato. Il decreto introduce anche una flat tax incrementale per i soggetti ISA e i forfettari. Si tratta di un’imposta sostitutiva opzionale sulla differenza tra il reddito proposto nel concordato e quello conseguito in precedenza. Le aliquote variano in base al punteggio ISA o al regime forfetario. Per i soggetti ISA, l’aliquota è del 10% per punteggi tra 8 e 10, del 12% per punteggi tra 6 e 8, e del 15% per punteggi inferiori a 6. Per i forfetari, l’aliquota è del 10%, ridotta al 3% per le start-up. I termini di versamento dell’imposta sostitutiva sono fissati entro i termini previsti per il versamento del saldo delle imposte sui redditi, con la prima scadenza al 30.06.2025, o con la maggiorazione dello 0,4% entro i 30 giorni successivi.

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Nuove norme sulle Startup Innovative, opportunità e sfide in Italia

Il Consiglio dei ministri ha recentemente approvato il disegno di legge annuale per il Mercato e la Concorrenza, introducendo significative novità per le startup innovative. Disposizioni progettate per migliorare la competitività del nostro Paese e supportare le imprese tecnologiche.

I punti principali

Il disegno di legge fissa degli elementi principali. Il capitale sociale minimo: le startup innovative devono avere un capitale sociale minimo di 20.000 euro entro due anni dall’iscrizione nel registro speciale, oltre ad avere almeno un dipendente. Durata estesa per Settori strategici: le startup nei settori strategici possono rimanere nel registro speciale fino a 84 mesi, rispetto ai precedenti 60 mesi. Incentivi per Incubatori Certificati: gli incubatori certificati possono ora beneficiare di deduzioni fiscali del 30% dall’Ires, incentivando la creazione di ambienti favorevoli alla crescita delle startup. Promozione degli Investimenti in Capitale di Rischio: nuove disposizioni mirano a favorire gli investimenti da parte di privati e istituzioni, aumentando le risorse disponibili per le startup innovative.

Innovazioni e criticità

La semplificazione nella costituzione delle startup è un aspetto molto positivo di queste nuove norme. La possibilità di costituire l’impresa direttamente online e senza costi iniziali riduce le barriere all’ingresso per gli imprenditori, facilitando l’avvio di nuove attività. L’incentivo agli investimenti in startup innovative è un altro punto di forza significativo. Questo non solo rende il mercato più attraente per gli investitori, ma fornisce anche le risorse finanziarie cruciali per la crescita e lo sviluppo delle nuove imprese. L’estensione dei benefici fiscali agli incubatori certificati è altrettanto vantaggiosa, poiché questi incubatori svolgono un ruolo chiave nel supportare le startup nei loro primi anni di vita, dalla formazione fino all’affermazione sul mercato. Tuttavia, ci sono alcune criticità che vanno evidenziate. Il requisito di un capitale sociale minimo di 20mila euro entro due anni è un ostacolo significativo per molte startup in fase iniziale. Questa soglia potrebbe escludere le piccole imprese con risorse limitate, riducendo l’accesso alle agevolazioni. Inoltre, nonostante gli sforzi di semplificazione, la normativa resta complessa e frammentata. Navigare tra i requisiti legali può richiedere consulenza specialistica, aumentando i costi e i tempi. Infine, mentre gli incentivi fiscali sono un buon punto di partenza, potrebbero non essere sufficientemente competitivi rispetto ad altri paesi europei. Questo potrebbe limitare l’attrattività dell’Italia come hub per le startup, riducendo il flusso di talenti e capitali internazionali verso il nostro paese. Un ulteriore punto di debolezza è il focus settoriale limitato. Le agevolazioni sembrano concentrarsi principalmente su settori tecnologici, potenzialmente escludendo altri che potrebbero beneficiare di supporto. Il disegno di legge annuale per il Mercato e la Concorrenza rappresenta un passo importante verso il supporto dell’ecosistema delle startup innovative in Italia. Tuttavia, è essenziale continuare a monitorare e adattare le normative per garantire che siano effettivamente inclusive e competitive a livello internazionale.

Di Paolo Gagliardi
*Esperto in startup, commercialista e CEO di Start Factory

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Trust immobiliare, Luciano Quaggia: «Uno strumento affidabile»

Il Trust ha rappresentato lo strumento giuridico capace di garantire ai fruitori concreti vantaggi nella pianificazione e ottimizzazione patrimoniale, al contempo fornendo una cornice legale tanto sicura quanto flessibile di protezione degli asset. L’istituto può essere adattato in modo “sartoriale” alle più svariate esigenze. Quello che soltanto qualche decennio fa era una prerogativa di pochi, ingenti e complessi patrimoni, oggi diviene sempre più frequentemente uno strumento accessibile e diffuso, forte dell’attrattività che deriva dall’affrontare con serenità e lungimiranza le sfide future. Un richiamo ulteriormente esaltato da un regime fiscale favorevole che permette, quando il trust è istituito da consulenti esperti, una legittima ottimizzazione dell’intera sfera fiscale dei soggetti coinvolti. È ricorrente oggi assistere alla progettazione di trust in risposta a specifiche esigenze familiari o professionali, a salvaguardia del patrimonio aziendale o a tutela di soggetti minorenni, fragili o inabili. Ma anche con la finalità di gestire fondi destinati a scopi benefici, che possano superare la vita del soggetto disponente senza gravare sulla sua liquidità immediata.

Gli scopi

Uno degli scopi principe, soprattutto in Italia, rimane la conduzione e la protezione del patrimonio immobiliare. Attraverso il trust è infatti possibile segregare la proprietà di immobili in una struttura che ne garantisca una gestione professionale, idonea ad assicurare che vengano mantenuti, valorizzati o trasferiti ai beneficiari designati secondo principi di efficienza, in accordo alle direttive impartite dal disponente. Il trust si caratterizza per l’ampia e libera definizione dei criteri connessi alla devoluzione degli immobili in favore dei beneficiari, ferma la certezza che ogni proprietà venga assegnata in coerenza alle volontà del disponente secondo ottiche di pianificazione successoria, mirate, ad esempio, alla prevenzione di situazioni di conflitto tra eredi. Ovvero il trust potrà incaricarsi della regolare distribuzione, dei redditi scaturenti dall’attività locatizia cui eventualmente assolva in forma autonoma. La flessibilità si manifesta anche nella possibilità di includere clausole specifiche volte a regolamentare l’uso e la fruizione degli immobili, quali l’istituzione di vincoli di destinazione e di usufrutto, che consentano al disponente di mantenere un controllo indiretto sugli asset e garantiscano che questi siano utilizzati secondo le sue disposizioni anche dopo la sua scomparsa.

Le conclusioni

L’adozione di un trust in Italia è una scelta strategica per chi cerca non solo di proteggere il proprio patrimonio, ma anche di assicurare che questo venga gestito con professionalità e lungimiranza. Con la giusta strutturazione, il trust può diventare un caposaldo contro le incertezze del futuro, proteggendo i beni e gli interessi del disponente e dei suoi beneficiari per le generazioni a venire.

Luciano Quaggia è notaio

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Trust immobiliare, la difesa dei patrimoni: ecco le regole fiscali

Con la defiscalizzazione in “entrata” (non si pagano tributi sulla costituzione del trust fund), il trust è diventato lo strumento per eccellenza nella conservazione e tutela dei patrimoni. La tassazione di quel patrimonio vincolato, apportato in trust, viene cronologicamente differita al momento della sua assegnazione ai beneficiari (principio dell’arricchimento gratuito ricevuto da essi). Pertanto, noi oggi abbiamo la possibilità di vincolare immobili, dossier titoli, polizze, quote di Holding o sub-holding, marchi, liquidità anche virtuale, senza pagare un euro di tasse (su di essi, per altro, si apre de facto una successione testamentaria indolore).

La tassazione

La loro tassazione verrà rinviata nel momento in cui quel patrimonio verrà ex sè assegnato ai beneficiari (figli) attraverso la tassazione in “uscita” (mai, v. eredi dei beneficiari che non “richiamano” i patrimoni segregati). Per cui non si pagano tributi in “entrata” sulla costituzione del patrimonio asservito in trust, deroghe per i trust in cui i beneficiari individuati o individuabili fossero titolari di diritti pieni ed esigibili, non soggetti alla discrezionalità del trustee. Si applicheranno in “uscita” le aliquote e le franchigie determinate dal rapporto disponente e beneficiario, ciò in quanto il trust è un rapporto giuridico complesso con un’unica causa fiduciaria. Sono escluse dalla tassazione finale del beneficiario le attribuzioni reddituali, vedi flussi cedolari sui titoli conferiti in trust, i canoni di locazione, i dividendi delle holding, le liquidazioni delle polizze (rendite/differenziali), essendo la tassazione limitata alle sole attribuzioni patrimoniali.

Le aziende

L’istituto è importante anche ai fini del passaggio intergenerazionale di un’azienda e della sua governance dovendo il trustee (terzo) gestire l’azienda e le sue holding verticali nell’interesse dei figli, recte: beneficiari (si evita per tale via una conflittualità endosocietaria). Ancora l’effetto segregativo, protettivo di “proprietà sospesa” sul patrimonio vincolato in trust, retro enunciato, il quale, non sarà aggredibile dai creditori del disponente (vecchio proprietario), nè tantomeno da quelli del trustee o beneficiario, con esclusione della patologia da interposizione fittizia, vedi i trust costituiti nel vigore di una verifica fiscale o di una procedura da riscossione coattiva. In questi ultimi casi, la costituzione del trust integrerà il reato di riduzione fraudolenta delle garanzie patrimoniali a beneficio del Fisco. Sul timing della tassazione del trust è stato detto che l’imposta si applica al momento della devoluzione del patrimonio a favore dei beneficiari, in quanto idoneo a determinare arricchimenti gratuiti dei beneficiari, v. anche decreti attuativi della recente Riforma fiscale sulla tassazione differita, “in uscita” all’atto del trasferimento, per cui possiamo immettere in trust patrimoni senza assolvere alcun tributo anche successori, v. trust testamentario. Con la Riforma fiscale viene introdotto il principio di autoliquidazione in deroga al criterio della tassazione in “uscita”, con la possibilità di attualizzare e stabilizzare il prelievo mediante versamento volontario, anticipato del tributo al momento dell’apporto al trust.

Fabio Ciani è avvocato tributarista

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Lavoratori impatriati, il regime speciale per l’imposizione sostitutiva

L’Agenzia delle Entrate, ha dato seguito a un quesito in merito alla possibilità di beneficiare del regime speciale per lavoratori impatriati per un ulteriore quinquennio, a partire dal periodo di imposta 2024, mediante l’esercizio dell’opzione di cui all’articolo 5, comma 2 bis, del Decreto Crescita, anche se al 31 dicembre 2019 non beneficiava di tale regime speciale pur avendone i requisiti, in quanto fruiva del regime per neo-residenti di cui all’articolo 24 bis del Testo unico delle imposte sui redditi.

Il parere

L’agenzia ha fornito parere positivo. Il contribuente deve soddisfare, nel primo anno dopo la conclusione del primo periodo agevolato, i requisiti previsti per effettuare nei termini il dovuto versamento del 10 o del 5% “dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo prodotti in Italia oggetto dell’agevolazione […] relativi al periodo d’imposta precedente a quello di esercizio dell’opzione”. Il documento illustra i requisiti necessari per accedere al regime speciale. Per poterne beneficiare, i soggetti devono trasferire la propria residenza fiscale in Italia e rispettare determinati requisiti, come aver lavorato all’estero in maniera continuativa per almeno due anni e aver lavorato per un’impresa residente in Italia.

L’interpello offre, altresì, chiarimenti sugli effetti della transizione dal regime opzionale di imposizione sostitutiva al regime per lavoratori impatriati, specificando che i benefici fiscali previsti dal regime opzionale cessano al momento dell’opzione per il regime impatriati, e che non è possibile cumulare le agevolazioni. L’Agenzia ritiene potersi applicare il prolungamento per ulteriori 5 periodi di imposta al contribuente che non ha beneficiato del regime per gli anni 2019, 2020 e 2021 e ciò perché rileva la circostanza della fruizione del regime speciale anche solo per alcune delle annualità del primo quinquennio agevolabile, in quanto potenzialmente beneficiario del regime per il periodo di imposta 2019.

Camilla Fino è avvocata tributarista

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Lavoratori impatriati, indennità di incentivo ed esodo di importo transattivo

L’Agenzia delle Entrate, con la Risoluzione n. 40/E del 23 luglio 2024, ha risposto ad un quesito in merito all’erogazione di somme corrisposte a titolo di “incentivo all’esodo” e di “importo transattivo” a soggetti che beneficiano del “regime speciale per lavoratori impatriati”, di cui all’articolo 16 del Decreto legislativo n. 147 del 14 settembre 2015. In particolare, in caso di indennità corrisposte a titolo di incentivo all’esodo, con la Risoluzione in disamina l’Agenzia ha chiarito che il contribuente che intenda beneficiare del regime speciale per lavoratori impatriati può rivolgersi al competente Ufficio territoriale dell’Agenzia delle Entrate che, in sede di assistenza, previa verifica dei presupposti, riliquiderà l’imposta dovuta, facendo concorrere i redditi in questione alla formazione del reddito complessivo dell’anno in cui sono percepiti.

L’Istanza di interpello si concentra sulla possibilità di estendere i benefici fiscali anche alle indennità di incentivo all’esodo e agli importi transattivi, chiarendo come i due regimi possano essere applicati in casi specifici. Cosicché i redditi da lavoro dipendente e assimilati percepiti dai lavoratori che trasferiscono la loro residenza in Italia possano beneficiare di una riduzione dell’imponibile fiscale.

Riguardo la possibilità di applicare il regime speciale di cui all’articolo 16 del D.Lgs. n. 147/2015 alle predette somme per la soglia superiore a 1 milione di euro, si fa presente che, come chiarito nella Circolare 3/E del 2012, l’Istante dovrà assoggettare a tassazione ordinaria le somme eccedenti la predetta soglia. L’assoggettamento alle ordinarie regole di tassazione per scaglioni delle somme in oggetto, per la soglia eccedente 1 milione di euro, consente di applicare alle stesse, nel rispetto di ogni altra condizione richiesta dalla norma, il regime speciale in commento.

Pietro Fino è commercialista

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