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I timori per mercati ed economia

I timori relativi all’aumento del rischio di attentati, acuiti dalla proclamazione di Hamas di un “giorno di rabbia furiosa” in concomitanza con la sepoltura del suo leader Ismail Haniyeh in Qatar, si aggiungono al peggioramento della recessione globale, accentuata dai recenti dati negativi provenienti dal mercato del lavoro statunitense. Questo ha provocato un vero e proprio venerdì nero sui mercati finanziari internazionali. A Wall Street, il colosso dei chip Intel ha registrato una delle peggiori performance della giornata, mentre Amazon ha deluso gli investitori con una guidance al ribasso per il prossimo trimestre, aggravando ulteriormente il sentiment negativo. Le Borse europee, trascinate al ribasso dal crollo del settore tecnologico, hanno subito forti perdite. In particolare, a Milano, il Ftse Mib ha chiuso la giornata in calo del 2,5%, scendendo a quota 32.000 punti, il livello più basso registrato da febbraio. Gli investitori italiani si chiedono se si tratta di una crisi momentanea dopo un periodo di crescita della borsa italiana o se siamo di fronte a una inversione di tendenza. Per rispondere a questa domanda, diamo uno sguardo ai dati Istat sull’andamento dell’economia italiana.

Il dollaro ha toccato il livello più basso degli ultimi quattro mesi, in vista di un possibile taglio dei tassi da parte della Federal Reserve previsto per settembre. Questa svalutazione della moneta statunitense riflette le crescenti incertezze riguardo alla stabilità economica degli Stati Uniti.

In Europa, la situazione non è meno preoccupante. Il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, lo spread, è salito verso i 150 punti base. Questo aumento indica un maggiore rischio percepito dagli investitori nei confronti dei titoli italiani, aggravato dalle incertezze politiche e dalle tensioni geopolitiche in Medio Oriente. Nonostante il quadro internazionale preoccupante, i dati sul mercato del lavoro italiano mostrano segnali positivi. A giugno 2024, il numero di occupati è aumentato dello 0,1% rispetto al mese precedente, pari a 25mila unità. Questo incremento è stato trainato dagli uomini, dai dipendenti permanenti, dagli autonomi, dai 25-34enni e dagli ultra 50enni. Si registra una diminuzione dell’occupazione tra le donne, i dipendenti a termine, i giovani tra i 15-24 anni e la fascia dei 35-49enni. Il tasso di occupazione è salito al 62,2%, mentre il tasso di disoccupazione è aumentato al 7,0%. Il numero di persone in cerca di lavoro è cresciuto dell’1,3%, pari a 23mila unità. Nonostante questi aumenti, il numero di inattivi è diminuito dello 0,3%, pari a 41mila unità.

A giugno 2024, l’indice destagionalizzato della produzione industriale italiana ha registrato un incremento dello 0,5% rispetto a maggio. Tuttavia, su base trimestrale, il livello della produzione è calato dello 0,8% rispetto ai tre mesi precedenti. I beni strumentali hanno mostrato un aumento del 2,0%, mentre i beni di consumo e l’energia hanno registrato flessioni rispettivamente dello 0,3% e dell’1,4%. In termini tendenziali, l’indice complessivo ha segnato una diminuzione del 2,6% rispetto a giugno 2023. I settori che hanno registrato gli incrementi maggiori sono stati la fabbricazione di prodotti chimici (+3,6%), le industrie alimentari, bevande e tabacco (+3,1%) e l’attività estrattiva (+2,7%). Al contrario, le flessioni più ampie si sono osservate nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-13,0%), nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-10,0%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-7,8%). Secondo le stime preliminari, nel mese di luglio 2024 l’indice nazionale dei prezzi al consumo è aumentato dello 0,5% su base mensile e dell’1,3% su base annua. Questa risalita dell’inflazione è stata determinata dall’aumento dei prezzi dei beni energetici regolamentati (+11,3%) e dall’attenuazione della flessione dei prezzi degli energetici non regolamentati (-6,1%). La dinamica dei prezzi dei beni, pur rimanendo negativa, ha registrato un miglioramento, passando dal -0,7% al -0,1%. I prezzi dei servizi hanno mostrato una lieve accelerazione, aumentando dal +2,8% al +3,0%.

Il combinato disposto di timori di una recessione globale, dati economici negativi e incertezze geopolitiche ha portato a una settimana estremamente volatile per i mercati finanziari internazionali. Le Borse europee e asiatiche hanno subito pesanti perdite, con il settore tecnologico particolarmente colpito. Nonostante ciò, i dati sul mercato del lavoro italiano e sulla produzione industriale offrono alcuni segnali positivi. Tuttavia, le sfide rimangono significative e l’attenzione degli investitori è rivolta alle prossime mosse delle banche centrali e agli sviluppi geopolitici, che continueranno a influenzare i mercati nel breve termine.

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La doppia faccia dello sviluppo

Cosa c’è di vero sulla individuazione ed eventuale riapertura dei siti minerari dismessi o abbandonati? È solo retorica e propaganda? Un nuovo modello autarchico nostalgico – di vecchia ispirazione – dovuto a una necessità economica-imprenditoriale per l’Europa? Per fare la transizione energetica e digitale senza dipendere troppo dall’estero (specie dalla Cina), l’Italia deve riaprire le miniere. È questo l’indirizzo che arriva dall’Ue, che ha individuato 34 materie prime critiche per la transizione verde e digitale, e ha previsto che i singoli Stati facciano una ricognizione dei loro giacimenti e avviino le estrazioni possibili.

I siti minerari abbandonati di potenziale interesse sono sparsi lungo tutta la penisola. Secondo un rapporto dell’Ispra, al 2006 le miniere dismesse erano 2.990 in Italia. Ma al 2019, solo 94 hanno una concessione ancora in vigore e 76 sono i siti che risultano in produzione al 2020. 562 siti minerari dismessi o abbandonati presentano un grado di rischio ecologico-sanitario da medio ad alto. Di questi quasi 100 siti minerari, solo alcuni riguardano materie prime critiche.

A fare gola in Puglia sono i giacimenti di bauxite, già inseriti nell’elenco predisposto dal Mimit. Vecchi siti abbandonati da tempo che potrebbero tornare utili, ma con quali costi per l’ambiente e un territorio vocato all’attrazione naturalistica? Insomma, l’autarchia potrebbe fare bene all’economia italiana ma impattare, con danni non calcolabili, su quella pugliese.

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Se domanda e offerta si disallineano

La riforma della filiera formativa tecnologico-professionale secondo il modello 4+2 è legge. E il definitivo via libera da parte della Camera arriva in concomitanza della pubblicazione di uno studio, condotto da Prometeia e Legacoop, sul disallineamento tra domanda e offerta di lavoro nel nostro Paese: una indagine che probabilmente richiede al Governo uno sforzo ulteriore per evitare che tanti giovani e meno giovani restino ai margini del mercato del lavoro soprattutto nel Mezzogiorno.

I dati sono inquietanti: di qui al 2030, per effetto del calo demografico, mancheranno all’appello 150mila lavoratori l’anno con la conseguenza che la platea degli occupabili si ridurrà di circa 805mila unità. Altrettanto preoccupante è la statistica riguardante le difficoltà nel reperire personale: nel 2023 il 45% delle assunzioni pianificate era difficile da portare a termine, con sensibili differenze; per i lavoratori a basso livello d’istruzione, il problema è la numerosità perché sono più del 50% rispetto alla domanda; per quelli ad alto livello d’istruzione, invece, il problema è il disallineamento tra la loro specializzazione e quella richiesta dal mercato. E poi c’è il problema dei Neet: dopo la Romania, l’Italia ha la più alta percentuale di giovani che non studiano né lavorano, con punte preoccupanti in regioni meridionali come Calabria, Sicilia e Puglia.

In questo contesto si inserisce la riforma Valditara che rivede in via sperimentale i percorsi formativi degli istituti tecnici e professionali in quattro anni di studi superiori, agganciandoli al percorso biennale degli Its che hanno l’obiettivo di formare tecnici di alta specializzazione. Il diploma, però, consentirà anche l’accesso all’università o direttamente al mondo del lavoro. La filiera introdotta a partire dal prossimo anno è costituita da specifici percorsi sperimentali quadriennali del secondo ciclo di istruzione e dai percorsi formativi degli istituti tecnologici superiori (Its Academy), oltre ai percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFp) e dai percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts). Si prevedono il rafforzamento delle competenze nelle materie di base, dove i rendimenti sono più bassi per gli studenti degli istituti tecnici e professionali, e l’ampliamento delle competenze specialistiche, con maggiori attività di laboratorio, incremento delle attività in azienda e presenza tra i docenti anche di esperti provenienti dal mondo del lavoro. Nell’ambito della filiera, Regioni e Uffici scolastici regionali possono stipulare accordi per integrare e ampliare l’offerta formativa dei percorsi sperimentali e dei percorsi di istruzione e formazione professionale, in funzione delle esigenze specifiche dei territori.

Si tratta di una riforma tanto coraggiosa quanto necessaria, se si considera che la mancanza di manodopera è il primo problema per lo sviluppo aziendale, ben davanti ai costi delle materie prime, e in alcuni settori e territori lambisce addirittura il 60%. Ecco perché, come precisato dai vertici di Legacoop, occorre un cambio di mentalità: istruzione, formazione, politiche attive del lavoro sono la soluzione sia ai problemi delle persone sia del sistema produttivo. Perciò sono indispensabili interventi per adeguare le competenze alle necessità del mondo del lavoro e un approccio pragmatico e non ideologico al tema dell’immigrazione: la riforma Valditara è un primo passo, ma adesso al Governo tocca fare il secondo. Nell’interesse di tutti, a cominciare dai giovani del Sud.

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Cosa ci dice il voto di Potenza

Pochi temi fanno emergere le contraddizioni che dilaniano le forze politiche come l’autonomia differenziata. E il voto con cui il Consiglio regionale della Basilicata si è schierato contro il referendum abrogativo della legge Calderoli ne è la dimostrazione. Partiamo dai centristi. I vertici nazionali di Azione e Italia Viva non hanno mai nascosto la propria contrarietà alla riforma. In Basilicata, però, Azione, partito il cui nome già contiene il germe del protagonismo politico, ha preferito rimanere inerte, con Pittella e Morea che ieri si sono astenuti. Italia Viva, invece, ha scelto di non farsi… viva, con Polese che ha addirittura disertato la seduta del Consiglio. Paradossi linguistici a parte, i centristi hanno così consentito al centrodestra di allontanare la prospettiva del referendum. Alle contraddizioni non sfugge nemmeno il governatore Bardi che, subito dopo la definitiva approvazione della legge Calderoli da parte della Camera, non aveva nascosto le proprie perplessità. Ieri, invece, il presidente lucano si è sperticato in dichiarazioni di convinto sostegno dell’autonomia differenziata già prima che il Consiglio si pronunciasse. E poi c’è il centrosinistra. Lo stesso che difende la Costituzione, ma poi si oppone all’applicazione della norma che consente l’autonomia differenziata. Lo stesso, inoltre, che nel 2001 riformò il Titolo V della Carta spalancando le porte al regionalismo differenziato che adesso contesta. E chi paga il conto di tutto ciò? Tutta l’Italia, incluse le Regioni, che mai come oggi avrebbero bisogno di un dibattito sulle riforme serio, senza ideologismi e opportunismi.

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Non banalizzate il dibattito sulle riforme

È passata una settimana da quando anche la Regione Puglia – dopo la Campania, l’Emilia-Romagna, la Toscana e la Sardegna – ha dato il via libera alla richiesta di referendum abrogativo per la legge nazionale sull’autonomia differenziata, fortemente voluta dalla Lega e accettata, con tiepido entusiasmo, dalle altre forze del centrodestra. Il Consiglio regionale della Puglia ha votato a favore, nonostante il parere contrario espresso nei giorni precedenti dalla Commissione che si occupa proprio delle riforme. Certo, restano da individuare i delegati incaricati di presentare formalmente il quesito referendario, ma con l’adesione della Puglia tutte e cinque le Regioni a guida progressista si sono schierate contro la riforma disegnata dal ministro Roberto Calderoli e approvata a maggioranza dal Parlamento.

Fin qui tutto chiaro, così come era scontato questo “allineamento celeste” delle amministrazioni regionali di centrosinistra. Solo che anche questa volta, come è capitato in passato in tante occasioni, noi italiani abbiamo trasformato tutta la discussione sul provvedimento politico in un dibattito morale, un tempo si sarebbe preferito dire “ideologico”.

Così anche il tema dell’autonomia differenziata, a prescindere dai rischi reali e presunti che ne possano derivano alla nostra unità nazionale, cuore pulsante della Costituzione repubblicana, all’esasperazione delle disuguaglianze ataviche che zavorrano lo sviluppo uniforme dei territori, è diventata sin da subito l’alibi perfetto per una contrapposizione di piccolo cabotaggio. Dall’essere guelfi contro ghibellini, comunisti contro democristiani o semplicemente innocentisti contro colpevolisti, siamo saltati a piè pari in una nuova e irrilevante dicotomia tra leghisti veri, presunti o di riflesso, promotori e fautori del progetto dell’autonomia, e deluchiani, ovvero discepoli del presidente della Campania Vincenzo De Luca, capopopolo irruente e oppositore della norma. Una legge approvata probabilmente più per dare in pasto ai propri elettori una parvenza di efficientismo che per un’ampia e condivisa visione di adeguare ai tempi e alla società contemporanea le competenze tra i diversi livelli istituzionali del Paese. Ecco, il banco di prova dell’autonomia differenziata invece di produrre un dibattito intenso, di rigenerare le palestre formative dove far crescere la nuova classe dirigente, in particolare al Sud, si è ridotto a una sterile contrapposizione tra leghisti da una parte e deluchiani dall’altra, tra nordisti che vogliono tenersi strette le loro risorse fiscali e meridionalisti straccioni, che sbraitano per l’ennesimo furto subito.

Nella più nobile delle tensioni, invece riusciamo a dividerci tra progressisti, interessati alla bandiera dell’unità nazionale, dimenticandoci che qualche anno prima avevamo indossato la maglietta sulla quale oggi vomitiamo, e pericolosi fascisti, interessati a penalizzare il Sud e le sue popolazioni. Questo è il nostro limite più grande, ma è anche il limite più evidente che la riforma ha fatto riemergere e che ci penalizzerà fino a quando, come italiani e meridionali, non saremo capaci di mondare una volta e per tutte.

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Non era meglio confermare le vecchie Zes?

Il Mezzogiorno d’Italia costituisce una anomalia unica nel contesto dei Paesi sviluppati: le otto regioni meridionali costituiscono il 44% del territorio nazionale ed ospitano il 35% della popolazione, ma il reddito pro capite dei cittadini meridionali si attesta solo al 55% di quello dei connazionali del Centro-Nord.

Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna registrano un pil pro capite inferiore al 75% della media europea. Questa anomalia, che definisce l’assetto dualistico dell’economia italiana, è ormai un problema europeo, in quanto lo squilibrio italiano può costituire una seria minaccia per la stabilità futura dell’intera unione monetaria. Questa preoccupazione ha spinto Bruxelles a concedere cifre generose all’Italia nell’ambito del Pnrr, stabilendo un vincolo di spesa a favore del Mezzogiorno di almeno il 40% dei finanziamenti totali. L’obiettivo di rendere questa vasta area più competitiva e attrattiva per gli investimenti è stato ulteriormente rafforzato dall’istituzione di Zone economiche speciali nel Mezzogiorno.

Nel 2017 ne furono istituite otto (Abruzzo, Adriatica-interregionale Puglia-Molise, Calabria, Campania, Ionica-interregionale Puglia-Basilicata, Sicilia Occidentale, Sicilia Orientale, Sardegna) individuando le aree di interesse sulla base di determinati requisiti, perfezionati dal Dpcm 12 del 2018.

La Zes è di norma composta da territori quali porti, aree retroportuali, piattaforme logistiche e interporti, non può comprendere zone residenziali. Sotto questa definizione ricadono, nel Mezzogiorno, le aree portuali di Napoli, Gioia Tauro, Bari, Taranto, Palermo, Augusta e Cagliari. La logica del provvedimento del 2017 “era” quella di concentrare investimenti in aree dotate di una struttura infrastrutturale, potenzialmente destinate a essere poli di sviluppo.

“Era”: perché il governo Meloni con il decreto 124/2023 ha istituito la Zes unica estesa a tutti territori del Mezzogiorno, eliminando il modello dei poli di sviluppo. Il territorio su cui si applicano le agevolazioni previste per le imprese che investono nelle Zes passa dallo 0,4% della superficie complessiva del Mezzogiorno al 95%, escludendo zone dell’Abruzzo. La Zes unica diventa così la zona economica speciale più grande d’Europa per estensione territoriale e per popolazione residente. Le agevolazioni fiscali e finanziarie per le imprese che investono nella Zes sono costituiti principalmente da crediti di imposta per gli investimenti in beni strumentali destinati a strutture produttive effettuati dalle imprese ubicate nelle regioni appartenenti alla Zes, finanziamenti agevolati gestiti da Invitalia, e la decontribuzione per le nuove assunzioni delle microimprese operanti nella Zes. La scelta del governo ha assimilato la Zes a un’area a fiscalità differenziata, cioè a un regime di incentivi che ha caratterizzato le regioni meridionali fin dagli anni Cinquanta e che certo non ha alcuna pretesa innovativa.

Le Zes nascono invece con specifiche finalità di sviluppo, articolandosi in Zone franche, aree esenti da imposte che offrono strutture per lo stoccaggio e la distribuzione commerciale soprattutto orientata all’esportazione, in Parchi industriali, aree destinate allo sviluppo industriale con dotazioni infrastrutturali e in Parchi tecnologici gestiti da soggetti specializzati di alta formazione il cui scopo è promuovere innovazioni e sostenere la competitività delle imprese. La legge del 2017 puntava alla valorizzazione dei porti meridionali inserendoli nei grandi nodi intermodali che caratterizzano il commercio transcontinentale, avvicinandosi molto al modello della Zona franca, con l’obiettivo di trasformare il sistema portuale del Sud in un fulcro degli scambi tra l’Europa, i Paesi asiatici e del Nord Africa: una strategia che avrebbe potuto assicurare nel medio-lungo termine un’opportunità di sviluppo per tutto il Paese. La migliore soluzione sarebbe stata quella di mantenere le otto Zes portuali previste dalla legge del 2017, introducendo ulteriori semplificazioni burocratiche e fiscali, definendo altre aree di intervento dove implementare Zes con altri obiettivi. La Polonia, che vanta best practice in questo ambito, ha ben 14 Zes, istituite nel 1994, che hanno contribuito notevolmente alla crescita del Paese. In questo modo si sarebbero mantenuti i poli di sviluppo portuali come assi privilegiati di intervento e si sarebbero incoraggiati gli investimenti in altre zone.

La Zes unica rischia di non dare risultati rilevanti, anche per la scarsità di finanziamenti. Il 22 luglio l’Agenzia delle Entrate ha anticipato che il credito d’imposta per le imprese che hanno effettuato investimenti per l’acquisto di beni strumentali in tutte le regioni meridionali sarà drasticamente ridotto dal 60% al 17%. Inoltre le risorse stanziate dal Pnrr pari a 1,8 miliardi valgono solo per gli investimenti effettuati fino al 15 novembre 2024 e quindi destinate alle imprese già insediate, lasciando nell’incertezza gli investitori potenziali. Così la Zes unica rischia di aggiungersi alla lunga lista di insuccessi che da trent’anni caratterizzano la politica di sviluppo per il Sud.

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