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Sud, le detrazioni non bastano: servono investimenti pubblici

Nonostante l’ottimismo che caratterizza alcune analisi sul Mezzogiorno, come quella proposta dal Forum Verso Sud organizzato nel maggio corso dal lombardo Studio Ambrosetti, il divario tra Nord e Sud non accenna a ridursi. Secondo gli ultimi dati disponibili, relativi al 2022, il pil pro-capite a prezzi correnti delle regioni del Nord-Ovest è pari a 40.900 euro ed è circa il doppio di quello del Mezzogiorno (21.700 euro). Il pil per abitante di Milano è di 60mila euro, molto distante da quello delle province siciliane, sarde e calabresi che non supera i 17mila euro. Il rapporto tra il pil per abitante del Mezzogiorno e quello del Centro-Nord, che all’inizio degli anni Ottanta si attestava al 60%, alla vigilia della pandemia è precipitato al 55. Un divario regionale di queste proporzioni e di cronica persistenza non è presente in nessun Paese sviluppato, e questa caratteristica definisce l’economia italiana come dualistica: una parte del Paese non riesce ad agganciare i ritmi di sviluppo della parte più avanzata. Per il Mezzogiorno non vale la legge della convergenza, sostenuta da economisti liberisti, secondo la quale le regioni più arretrate dovrebbero crescere più rapidamente di quelle avanzate, avvantaggiandosi di lavoro disponibile e di costo del lavoro più contenuto, fattori che renderebbero più profittevoli gli investimenti. Una legge che ha funzionato per Paesi dell’Est Europa che stanno riducendo il divario con il nucleo più sviluppato.

Paesi come Polonia e Lettonia all’ingresso nell’Unione europea avevano un pil pro capite rispettivamente del 51,2% e 48,3% rispetto alla media europea, dopo appena dieci anni, nel 2016, il dato è migliorato attestandosi al 71,6 e 65,3%. In Calabria è oggi al 55, in Sicilia al 58, in Campania e Puglia al 61. L’applicazione di politiche liberiste che ha condotto all’abolizione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno e alla fine della cosiddetta economia assistita non ha prodotto, nelle regioni meridionali dell’Italia, gli stessi risultati che hanno ottenuto, con le stesse politiche, altre aree arretrate (si pensi all’Irlanda). L’Italia non ha quindi ancora realizzato la sua unificazione economica e persiste nel cronico paradosso di condizioni di vita radicalmente diverse tra Centro, Nord e Sud. Alcune forze politiche, come la Lega, hanno preso atto di questa divergenza spezzando anche l’unità politica del Paese, attuando con il regionalismo differenziato la riforma costituzionale varata dal centrosinistra nel 2001 per meschini calcoli elettorali.

In questo contesto è illusorio pensare a una nuova stagione di intervento straordinario, con una politica di investimenti pubblici nel Mezzogiorno, l’unico strumento in grado di favorire lo sviluppo quando il libero mercato non riesce a essere un meccanismo virtuoso. E ancora più difficile pensare che questo intervento, seppur vi fosse volontà politica, dovrebbe mobilitare ingenti risorse pubbliche verso Sud. La politica di sviluppo proposta dal governo si affida al tradizionale sistema di incentivi e detrazioni fiscali che possono avere un certo successo in aree del Mezzogiorno che presentano requisiti infrastrutturali e caratteristiche della forza lavoro idonee, ma risulteranno del tutto inefficaci nelle aree più arretrate che possono essere inserite in processi di sviluppo solo da consistenti flussi di investimenti pubblici, non solo limitati alle infrastrutture e alla formazione del capitale umano, ma indirizzati anche al finanziamento diretto delle strutture produttive. Flussi che ovviamente dovrebbero avere consistenza ben più elevata dei fondi attualmente disponibili (Pnrr compreso). Il Mezzogiorno lasciato al libero mercato non potrà evitare processi di spopolamento e l’unica risorsa che potrà sfruttare sarà il suo paesaggio per i flussi turistici. Ma anche nel turismo, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il principale settore di sviluppo del Sud, una seria politica di programmazione.

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Inflazione? Ora le famiglie tornano a sperare nel futuro

Il mese di luglio ha fatto registrare un aumento dell’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), pari allo 0,5% su base mensile e all’1,3% su base annua, con una crescita di poco meno di un punto percentuale (+0,8%) rispetto al mese precedente. Le cause di questa ripresa inflazionistica sono da ricercarsi nell’aumento dei prezzi dei Beni energetici regolamentati (da +3,5% a +11,3%) che è sorprendente in una fase in cui gli indici energetici non regolamentati registrano un calo molto significativo (da -10,3% a -6,1%).

Nel mese di luglio l’“inflazione di fondo”, depurata dai prezzi dell’energia e degli alimentari freschi, resta stabile a +1,9%. I prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona rallentano su base tendenziale (da +1,2% a +0,8%), come anche quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto (da +2,0% a +1,9%).

Come è noto per prevedere questi fenomeni è importante monitorare la fiducia dei consumatori e le opinioni degli operatori economici. A luglio 2024 questi due indici forniscono segnali contrastanti. L’indice del clima di fiducia dei consumatori è stimato in aumento da 98,3 a 98,9; invece l’indicatore composito del clima di fiducia delle imprese scende d 94,5 a 94,2. Per i consumatori, si evidenzia un diffuso miglioramento delle valutazioni sulla situazione economica generale e, soprattutto, su quella personale: il clima economico aumenta da 105,3 a 105,6 e il clima personale cresce da 95,8 a 96,5.

Anche le opinioni sulla situazione futura sono improntate all’ottimismo mentre i giudizi sulla situazione corrente sono più cauti (il clima futuro passa da 98,7 a 99,4 e il clima corrente sale da 98,1 a 98,5).

Considerando i risultati dell’analisi condotta sulle imprese, l’indice di fiducia diminuisce nelle costruzioni e nei servizi di mercato mentre dalla manifattura e dal commercio al dettaglio ci sono segnali positivi. In particolare, la fiducia peggiora nelle costruzioni e, soprattutto, nei servizi (l’indice scende, rispettivamente, da 104,5 a 103,6 e da 97,1 a 95,9) mentre nella manifattura e nel commercio si stima un aumento dell’indicatore (nell’ordine, da 86,9 a 87,6 e da 102,2 a 102,6). Passando al settore dei servizi, c’è un peggioramento dei giudizi sull’andamento dell’attività mentre le valutazioni sugli ordini migliorano e le relative attese rimangono stabili. Il peggioramento della fiducia del comparto è influenzato da opinioni negative nel settore del turismo e in quello dell’informazione e comunicazione. Nel commercio al dettaglio, l’aumento della fiducia è trainato sostanzialmente dai giudizi positivi sulle vendite e dalle scorte di magazzino giudicate in decumulo; le attese sulle vendite diminuiscono.

Nella distribuzione tradizionale l’indice aumenta da 108,1 a 109,4, mentre nella grande distribuzione si registra un calo (da 100,0 a 99,4). Nelle costruzioni, in base alle attese sugli ordini e ai mesi di attività assicurata dichiarati dagli imprenditori, si prospetta una tenuta dell’attività del comparto. Le indagini condotte mensilmente dall’Istat rappresentano un barometro in grado di prevedere le tendenze future. Il fatto che il clima di fiducia delle imprese diminuisca per il quarto mese consecutivo e sia inferiore alla media degli ultimi 12 mesi non ci permette di essere ottimisti sull’andamento futuro. Per contro l’indice di fiducia dei consumatori continua a crescere, senza interruzioni, dallo scorso maggio e raggiunge il valore più elevato da febbraio 2022. Le famiglie quindi, differenza degli operatori economici sono ottimiste rispetto alle possibilità di crescita con le uniche eccezioni riguardanti: la disoccupazione, l’opportunità di risparmiare e la convenienza all’acquisto di beni durevoli.

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Gestioni fondi, un perenne scontro

Il Fondo di sviluppo e coesione (Fsc) è ormai uno dei principali motivi di scontro politico tra il governo Meloni e le Regioni amministrate dal centrosinistra, a cominciare da Puglia e Campania. Da una parte c’è il ministro Raffaele Fitto, che sottolinea la necessità di coordinare quelle risorse con gli altri fondi per lo sviluppo e col Pnrr; dall’altra le Regioni, che reclamano soldi indispensabili per assicurare incentivi alle imprese e realizzare una lunga serie di investimenti pubblici. La questione è tornata di attualità dopo che la Puglia ha chiesto l’anticipazione di 1,66 miliardi attraverso i quali finanziare interventi urgenti in cinque ambiti: transizione ecologica, sostegno alle imprese, trasporto pubblico locale, diritto allo studio, attuazione del Pnrr. Ma, in questa diatriba, chi ha ragione?

Per esprimere un giudizio di senso compiuto bisogna analizzare la strategia seguita dal governo Meloni. Se un tempo la programmazione degli interventi finanziati dal Fsc poggiava sui Piani di sviluppo e coesione, oggi si realizza attraverso gli Accordi per la coesione. L’obiettivo dell’esecutivo è accentuare il presidio centrale nella gestione del Fondo, individuare settori strategici sui quali indirizzare prioritariamente le risorse e rafforzare il ruolo propulsivo della cabina di regia. Che cosa emerge, però, se si analizzano i 18 Accordi per la coesione stipulati tra governo Meloni e ciascuna Regione tra settembre 2023 (Liguria) e maggio 2024 (Sicilia)? Quegli accordi comprendono circa 2.400 interventi, di cui un migliaio finanziati in anticipazione per circa due dei 22 miliardi complessivi. Nonostante i buoni propositi del governo Meloni, però, nella nuova impostazione di Fsc e Accordi per la coesione non si notano elementi capaci di migliorare la qualità della spesa.

L’economista Piero Rubino li ha indicati con chiarezza: mancano un’analisi dei fabbisogni che giustifichi la selezione degli interventi nei vari ambiti, indicatori che consentano di monitorare l’andamento non solo finanziario ma anche realizzativo delle opere come avviene per il Pnrr, procedure di valutazione oggettiva dell’efficacia di ciascun intervento. E il risultato di questi “limiti” è l’accrescimento di quella stessa frammentazione che il governo Meloni intendeva limitare. Basta analizzare i dati di Open Coesione: a trasporti e mobilità sono destinati 4.504 milioni, altri 3.871 ad ambiente e risorse naturali, altri 1.341 ancora a riqualificazione urbana. Tutte le restanti risorse sono suddivise tra ricerca e innovazione, digitalizzazione, competitività e imprese, energia, cultura, lavoro e occupabilità, sociale e salute, istruzione e formazione, capacità amministrativa.

Il valore medio degli interventi nei settori relativi ad ambiente, trasporti e città oscilla tra 15.1 e 15.6 milioni, cioè di poco al di sopra del valore medio per tutti i 12 ambiti che è fermo a 14.2. La frammentazione è confermata dalla distribuzione degli interventi per fasce di costo: circa il 75% è al di sotto della soglia dei 10 milioni. Numeri che danno la sensazione di un collazione di iniziative e non di elenchi ragionati di interventi. A livello finanziario, invece, gli studi evidenziano un’accelerazione della spesa negli anni iniziali e un successivo rallentamento.Insomma, al momento non sembra che sulle risorse dell’Fsc sia cambiato molto. Qualità e velocità della spesa non sono migliorate, con buona pace di Palazzo Chigi. L’unico elemento nuovo è la gestione “verticale” delle politiche di sviluppo da parte del governo Meloni. Ma sul Fsc qualcosa dovrà cambiare, ancora e possibilmente in meglio, per evitare che i 48 miliardi della programmazione 2021-2027 diventino la cifra dell’ennesima occasione perduta dall’Italia e in particolare dal Mezzogiorno.

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Burocrazia, rischio duplicati

L’autonomia differenziata, così come è stata concepita nella recente riforma, presenta numerose criticità che richiedono una riflessione e una revisione profonda. Sebbene l’autonomia possa rappresentare un’evoluzione naturale del nostro sistema amministrativo, l’implementazione prevista rischia di aumentare le disuguaglianze tra le regioni e di generare costi aggiuntivi per i cittadini.

Uno dei problemi principali risiede nella possibilità di una duplicazione delle strutture amministrative, che potrebbe comportare un aumento dei costi anziché una loro riduzione. Questo rischio è particolarmente evidente nelle funzioni che lo Stato potrebbe dover mantenere, portando così a una moltiplicazione delle spese per la gestione pubblica. La maggioranza politica, con in testa la Lega, sostiene che la riforma non comporterà un aumento dei costi, ma le preoccupazioni sollevate indicano che potremmo assistere a una duplicazione delle strutture amministrative e, di conseguenza, a un incremento delle spese.

Attualmente, il sistema tributario italiano è fondato sulla progressività fiscale e sulla redistribuzione della ricchezza a livello nazionale. L’autonomia differenziata, però, potrebbe frammentare questo principio, provocando disparità nel finanziamento dei servizi pubblici tra le diverse regioni. Tale frammentazione potrebbe accentuare le differenze economiche e sociali tra le aree più ricche e quelle più povere del Paese.

In questo contesto, si inseriscono anche le recenti dinamiche fiscali, come la costante crescita dei contribuenti forfettari e l’introduzione della Flat Tax sul reddito incrementale per i contribuenti che aderisco al nuovo accordo con il fisco. Questi strumenti, pur avendo l’obiettivo di semplificare e ridurre il carico fiscale per alcune categorie di contribuenti, sottraggono entrate ai comuni e alle regioni. La Flat Tax, infatti, è un’imposta sostitutiva che rimpiazza anche le addizionali comunali e regionali, riducendo così le risorse a disposizione degli enti locali per finanziare i servizi pubblici. Il concordato preventivo biennale, che accompagna la Flat Tax, contribuisce ulteriormente a questa erosione delle entrate, minando la capacità dei comuni e delle regioni di garantire servizi equi e di qualità.

La gestione della sanità a livello regionale ha già mostrato evidenti limiti, soprattutto nel Sud, dove le disuguaglianze nell’accesso e nella qualità dei servizi sanitari sono più marcate. L’ulteriore regionalizzazione della sanità rischia di amplificare queste disuguaglianze. Già oggi, le differenze tra le regioni nel sistema sanitario sono significative e peggiorare ulteriormente questo scenario sarebbe inaccettabile.

Analogamente, l’istruzione è un settore che – a mio parere – deve rimanere centralizzato per garantire un’uguaglianza di opportunità educativa su tutto il territorio nazionale. La differenziazione delle competenze educative potrebbe portare a sistemi scolastici regionali di qualità variabile, creando ulteriori disuguaglianze socioeconomiche. La frammentazione del sistema educativo potrebbe compromettere la coesione nazionale e l’equità sociale.

Una possibile soluzione potrebbe essere il rafforzamento delle competenze dei comuni e delle province storiche, che sono gli enti di prossimità più vicini ai cittadini. Questi enti potrebbero gestire in maniera più efficace e diretta le risorse e le competenze, rispondendo meglio alle esigenze locali. Eliminare i corpi intermedi come le regioni, che hanno spesso fallito nella gestione delle risorse, potrebbe contribuire a una maggiore efficienza e trasparenza amministrativa.

La mobilitazione per il referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata evidenzia quanto sia sentito e controverso questo tema. In pochi giorni, è stato raggiunto l’obiettivo delle 500mila firme necessarie per proporre il quesito referendario, grazie all’impegno di partiti, forze sociali e associazioni. Questo evento rappresenta un momento significativo per la democrazia italiana, dimostrando che la popolazione è presente e attiva. Quando la politica si fa sentire ed è vicina ai problemi della gente, la partecipazione elettorale diventa tangibile. È un bellissimo momento di democrazia che tanto manca al nostro paese, un segnale potente di partecipazione popolare contro una riforma considerata divisiva e pericolosa.

L’autonomia differenziata, per essere veramente efficace e giusta, dev’essere ripensata con una visione che parta dai territori, dando maggiori poteri ai comuni e alle province, eliminando le inefficienze create dalle regioni, e garantendo un’equa distribuzione delle risorse a livello nazionale. L’Italia ha bisogno di una nuova visione di paese, unita nella diversità, ma equa e giusta per tutti.

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L’esegesi del pensiero meloniano

Per il primo numero di agosto sulla copertina di Chi, il “settimanale people più letto d’Italia che racconta le storie dei personaggi più amati e seguiti dal pubblico” – come si legge dalla scheda editoriale pubblicata sul sito della Mondadori – ci sono Chiara Ferragni e il suo manager Silvio Campara e il loro presunto flirt, poi Francesco Totti e Noemi Bocchi impegnati a lavare le tapparelle di casa, il principe Harry e la consorte Meghan Markle, ma soprattutto c’è lei, Giorgia Meloni.

La presidente del Consiglio risponde alle domande di Giulia Cerasoli e fa “un bilancio in totale trasparenza e con lo stile diretto che la caratterizza” dei suoi due anni a Palazzo Chigi. Una intervista molto lunga, ben sette pagine, corredata da dodici fotografie che raccontano sia alcuni dei momenti pubblici che privati vissuti dalla premier.

Adesso, la maggior parte degli analisti e degli osservatori politici si è catapultata nello studio filologico, matto e disperatissimo, delle risposte dettate dalla Meloni, così come nell’estrazione dei possibili non detto o delle velate allusioni che di certo qualche bravo opinionista politica riuscirà a scovare e a evidenziare.

Però, questo esercizio interpretativo che potrebbe farci comprendere in anticipo le future evoluzioni dello scenario politico italiano nei prossimi mesi, rimane circoscritto a un pubblico ristretto. Ecco perché il dato più interessante dell’intervista a Giorgia Meloni, non è tanto il contenuto in sé, quanto paradossalmente lo diventa il contenitore.

È la scelta di affidare a un settimanale gossiparo, di voyeurismo patinato la propria immagine, senza temere che questa cornice popolare le possa far pagar dazio, in termini di reputazione.

Anzi, nella logica mediale e narrativa di Giorgia Meloni di voler essere al contempo un leader politico e una celebrità di tutti i giorni, che non crea distanza e distacco, quindi immersa come qualunque altro di noi, suoi follower e concittadini, negli affanni e nella logorante routine quotidiana, non c’era una soluzione migliore di questa.

La matrice editoriale del settimanale diretto da Alfonso Signorini è la sintesi perfetta di questa visione disintermediata della celebrità contemporanea, a prescindere dall’ambito in cui si esercita, spettacolo, sport, cultura o politica.

Ogni settimana, il lettore-spettatore sfogliando le pagine di Chi porta a compimento quel processo di immedesimazione orizzontale, di latente condivisione delle medesime emozioni vissute dai suoi Dip, i digital important person, che hanno rimpiazzato i vetusti Vip, e che a tutte le ore del giorno può incontrare online sull’uscio della propria bacheca. Se così stanno le cose, allora è chiara l’importanza strategica del contenitore, del mezzo che diventa esso stesso messaggio, giusto per citare il più celebre dei principi descritti dal sociologo canadese Marshall McLuhan, per dare forza e credibilità al racconto meloniano di questi anni.

Non di meno, c’è da considerare almeno altri due aspetti, nient’affatto marginali per un leader politico, che sono legati alla scelta di rispondere alle quindici domande di Chi.

Innanzi tutto, l’intervista ha consentito di allargare la platea dei pubblici che solitamente possono essere raggiunti mediante i canali convenzionali, ma in particolare, di affrontare temi specifici, come la maternità o la condizione femminile nel mondo del lavoro sui quali la Meloni si è opportunamente soffermata, raggiungendo dei lettori che li considerano potenzialmente prioritari e che mai avrebbero comprato e letto, con leggerezza e interesse, le pagine di un quotidiano come la Repubblica, il Corriere o la Stampa.

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La coesione sociale che non c’è

La desertificazione demografica o denatalità il tema dei temi di questo tempo nella dimensione europea. La denatalità è una questione complessa di questo tempo e dei mutamenti economici e sociali di una società in continuo movimento. Il cambio della radice culturale della “famiglia” cosiddetta tradizionale, un sentimento della maternità molto affievolito, la corsa alla indipendenza economica e alla carriera un “freno” potente e prepotente alle nascite.

Un tema che non si risolve burocraticamente o con leggi di puro incentivo economico che pur sono importanti. La spoliazione dei servizi primari, l’idea del costo/beneficio, la logica perversa dei numeri in questi anni ha contribuito ad allargare la forbice delle nuove nascite dentro i confini nazionali ed europei. La storica distinzione aree interne aree costiere che attraversa l’Europa ed in particolare le aree meridionali.

Sul tema studiosi come Giustino Fortunato, Guido D’Orso solo per citare qualcuno hanno scritto pagine memorabili. Il Pnrr con un investimento a debito di oltre 200 miliardi di euro doveva essere l’occasione per provare ad invertire culturalmente, socialmente , politicamente la tendenza alla desertificazione demografica. I due pilastri del Pnrr, “coesione sociale” e riequilibrio territoriale” sono stati alla prova dei fatti letteralmente offesi e umiliati. Il Pnrr doveva intervenire soprattutto nella aree di maggiore disoccupazione giovanile, desertificazione demografica, assenza di servizi primari e investimenti nel settore della sanità pubblica e scuola pubblica. Il disastro e lo spreco del Pnrr è sotto gli occhi di tutti e sarà lavoro certo per le Procure nei prossimi anni.

Ancora una volta le classi dirigenti locali hanno fallito la loro mission perché non hanno una vision strategica. Le Regioni del Sud impegnate unicamente nella spesa per la spesa senza avere una “visione d’insieme” del nostro Mezzogiorno europeo nel Mediterraneo. Le nuove generazioni meridionali pagano tutto questo e sempre di più sognano il loro futuro altrove. Provo a dare dei numeri per chiarire la drammaticità del fenomeno: per la Regione Campania si prevede che la tendenza alla diminuzione mostrata dalla popolazione nel corso dell’ultimo decennio continuerà nel prossimi mezzo secolo, concentrandosi nelle fasce di età più giovani. Il fenomeno assumerà la massima intensità in Campania e nelle altre regioni del Mezzogiorno dove nasceranno sempre meno figli e continueranno i flussi migratori in uscita. Secondo le previsioni dell’Istat, l’Italia avrà 47.455.455 abitanti nel 2070 (11 milioni in meno rispetto al 2021). Le nascite si ridurranno dalle circa 400mila del 2021 a poco più di 360mila nel 2070. La perdita della popolazione risulterà rilevante nella sua componente più giovane (fino a 14 anni di età), proprio quella che costituisce la fonte generatrice delle future nascite. Il Mezzogiorno tra le fine del 2021 e il 2070 dovrebbe perdere 6.395.035 dei suoi 19.828.112 residenti. Si profila davanti a noi una società gerontocratica, piegata sugli egoismi e per nulla attenta al domani.

Una possibile via d’uscita potrebbe essere una diversa legislazione per le aree interne. Non è possibile avere un sistema di regole uniche per territori molto diversi con problematiche complesse. La sanità pubblica non può rispondere a logiche di numeri. La scuola non può dipendere dal numero degli alunni. Viabilità, rete veloce, ruralità intelligente e turismo devono avere un percorso legislativo diverso dalle grandi aree metropolitane. Il Comune di Rocchetta Sant’Antonio 1700 abitanti ha gli stessi adempimenti burocratici in materia di bilancio del Comune di Roma o di Milano. Tutto questo non è più sostenibile. Fermo restando che il tema vero è sociologico e antropologico: le società ricche e opulente come quelle europee hanno tracciato da tempo il loro triste destino e non si vedono all’orizzonte politica mondiale in grado di indicare una strada e alimentare un sogno.

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Marketing sì ma di qualità per il turismo

Il dibattito sul presunto calo turistico in Puglia, particolarmente nel Gargano, richiede un’analisi più approfondita e obiettiva.

Attribuire le difficoltà del settore a una mera “carenza di marketing comunicativo” è una semplificazione che non coglie la complessità della situazione.

Innanzitutto, è prematuro trarre conclusioni definitive su una stagione turistica ancora in corso. I dati preliminari di giugno, che mostrano un incremento delle presenze, suggeriscono che valutazioni affrettate possono essere fuorvianti. Il nodo cruciale non è la quantità di marketing, ma la sua qualità e pertinenza. Da anni, consistenti risorse derivanti dalla tassa di soggiorno – che ammonta a 2 euro per persona al giorno – vengono impiegate in modo discutibile. Questa tassa, pensata per migliorare l’offerta turistica e i servizi locali, sembra non aver prodotto i benefici tangibili attesi per il territorio garganico.

Un’analisi dettagliata dell’utilizzo di questi fondi rivela diverse criticità:1. Scarsa trasparenza nella rendicontazione delle spese. 2. Investimenti in progetti di marketing generico anziché in miglioramenti infrastrutturali concreti. 3. Finanziamento di consulenze esterne costose con risultati discutibili.4. Mancanza di investimenti significativi nella formazione degli operatori locali. L’approccio di affidarsi a presunti “guru” del marketing territoriale provenienti dall’estero si è rivelato particolarmente problematico.

Questa scelta non solo ignora le competenze locali e nazionali, ma porta anche all’implementazione di strategie spesso disconnesse dalle reali esigenze e peculiarità del Gargano.

È paradossale che, nonostante la presenza di professionisti locali con esperienza riconosciuta nel marketing territoriale, si continui a cercare soluzioni oltre confine.

I consulenti stranieri, per quanto possano essere esperti nel loro campo, mancano inevitabilmente della profonda conoscenza del territorio, della sua cultura e delle sue dinamiche socio-economiche che solo gli esperti locali possiedono.

Questa mancanza di connessione con il tessuto locale si traduce spesso in strategie generiche, poco efficaci e talvolta controproducenti.

Il persistere di problemi come la destagionalizzazione e la valorizzazione delle aree interne, nonostante anni di consulenze e progetti, dimostra che il vero problema non è la quantità di marketing, ma la sua qualità e rilevanza per il territorio.

È fondamentale ricordare che il successo turistico di molte destinazioni italiane non è il frutto di recenti campagne di marketing, ma il risultato di un patrimonio storico, culturale e naturale unico.

Il Gargano, con le sue risorse straordinarie, non fa eccezione e potrebbe attrarre visitatori tutto l’anno se valorizzato correttamente.

Per affrontare queste sfide, è necessario un approccio integrato e sostenibile al turismo che includa:

  • Una collaborazione più stretta tra operatori locali, istituzioni ed esperti del territorio.
  • Un utilizzo più efficiente e trasparente della tassa di soggiorno, con investimenti mirati al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi.
  • Lo sviluppo di strategie di marketing basate sulle peculiarità uniche del Gargano, elaborate da professionisti che conoscono profondamente il territorio.
  • Un focus sulla qualità dell’esperienza turistica, investendo nella formazione degli operatori e nel miglioramento dei servizi.
  • La promozione di un turismo sostenibile che valorizzi non solo le coste, ma anche l’entroterra e le tradizioni locali.

In conclusione, attribuire le difficoltà del settore turistico nel Gargano a una semplice “carenza di marketing” o cercare soluzioni da consulenti stranieri è un approccio miope.

La vera sfida consiste nel ripensare completamente l’approccio al turismo, valorizzando le risorse e le competenze locali, utilizzando in modo oculato i fondi della tassa di soggiorno e sviluppando strategie che riflettano autenticamente l’identità e le potenzialità del territorio.

Solo attraverso un impegno collettivo, una visione a lungo termine e un’attenzione particolare alle specificità locali si potrà costruire un futuro turistico sostenibile e prospero per il Gargano e per l’intero territorio della Puglia.

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    I timori per mercati ed economia

    I timori relativi all’aumento del rischio di attentati, acuiti dalla proclamazione di Hamas di un “giorno di rabbia furiosa” in concomitanza con la sepoltura del suo leader Ismail Haniyeh in Qatar, si aggiungono al peggioramento della recessione globale, accentuata dai recenti dati negativi provenienti dal mercato del lavoro statunitense. Questo ha provocato un vero e proprio venerdì nero sui mercati finanziari internazionali. A Wall Street, il colosso dei chip Intel ha registrato una delle peggiori performance della giornata, mentre Amazon ha deluso gli investitori con una guidance al ribasso per il prossimo trimestre, aggravando ulteriormente il sentiment negativo. Le Borse europee, trascinate al ribasso dal crollo del settore tecnologico, hanno subito forti perdite. In particolare, a Milano, il Ftse Mib ha chiuso la giornata in calo del 2,5%, scendendo a quota 32.000 punti, il livello più basso registrato da febbraio. Gli investitori italiani si chiedono se si tratta di una crisi momentanea dopo un periodo di crescita della borsa italiana o se siamo di fronte a una inversione di tendenza. Per rispondere a questa domanda, diamo uno sguardo ai dati Istat sull’andamento dell’economia italiana.

    Il dollaro ha toccato il livello più basso degli ultimi quattro mesi, in vista di un possibile taglio dei tassi da parte della Federal Reserve previsto per settembre. Questa svalutazione della moneta statunitense riflette le crescenti incertezze riguardo alla stabilità economica degli Stati Uniti.

    In Europa, la situazione non è meno preoccupante. Il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, lo spread, è salito verso i 150 punti base. Questo aumento indica un maggiore rischio percepito dagli investitori nei confronti dei titoli italiani, aggravato dalle incertezze politiche e dalle tensioni geopolitiche in Medio Oriente. Nonostante il quadro internazionale preoccupante, i dati sul mercato del lavoro italiano mostrano segnali positivi. A giugno 2024, il numero di occupati è aumentato dello 0,1% rispetto al mese precedente, pari a 25mila unità. Questo incremento è stato trainato dagli uomini, dai dipendenti permanenti, dagli autonomi, dai 25-34enni e dagli ultra 50enni. Si registra una diminuzione dell’occupazione tra le donne, i dipendenti a termine, i giovani tra i 15-24 anni e la fascia dei 35-49enni. Il tasso di occupazione è salito al 62,2%, mentre il tasso di disoccupazione è aumentato al 7,0%. Il numero di persone in cerca di lavoro è cresciuto dell’1,3%, pari a 23mila unità. Nonostante questi aumenti, il numero di inattivi è diminuito dello 0,3%, pari a 41mila unità.

    A giugno 2024, l’indice destagionalizzato della produzione industriale italiana ha registrato un incremento dello 0,5% rispetto a maggio. Tuttavia, su base trimestrale, il livello della produzione è calato dello 0,8% rispetto ai tre mesi precedenti. I beni strumentali hanno mostrato un aumento del 2,0%, mentre i beni di consumo e l’energia hanno registrato flessioni rispettivamente dello 0,3% e dell’1,4%. In termini tendenziali, l’indice complessivo ha segnato una diminuzione del 2,6% rispetto a giugno 2023. I settori che hanno registrato gli incrementi maggiori sono stati la fabbricazione di prodotti chimici (+3,6%), le industrie alimentari, bevande e tabacco (+3,1%) e l’attività estrattiva (+2,7%). Al contrario, le flessioni più ampie si sono osservate nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-13,0%), nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-10,0%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-7,8%). Secondo le stime preliminari, nel mese di luglio 2024 l’indice nazionale dei prezzi al consumo è aumentato dello 0,5% su base mensile e dell’1,3% su base annua. Questa risalita dell’inflazione è stata determinata dall’aumento dei prezzi dei beni energetici regolamentati (+11,3%) e dall’attenuazione della flessione dei prezzi degli energetici non regolamentati (-6,1%). La dinamica dei prezzi dei beni, pur rimanendo negativa, ha registrato un miglioramento, passando dal -0,7% al -0,1%. I prezzi dei servizi hanno mostrato una lieve accelerazione, aumentando dal +2,8% al +3,0%.

    Il combinato disposto di timori di una recessione globale, dati economici negativi e incertezze geopolitiche ha portato a una settimana estremamente volatile per i mercati finanziari internazionali. Le Borse europee e asiatiche hanno subito pesanti perdite, con il settore tecnologico particolarmente colpito. Nonostante ciò, i dati sul mercato del lavoro italiano e sulla produzione industriale offrono alcuni segnali positivi. Tuttavia, le sfide rimangono significative e l’attenzione degli investitori è rivolta alle prossime mosse delle banche centrali e agli sviluppi geopolitici, che continueranno a influenzare i mercati nel breve termine.

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    La doppia faccia dello sviluppo

    Cosa c’è di vero sulla individuazione ed eventuale riapertura dei siti minerari dismessi o abbandonati? È solo retorica e propaganda? Un nuovo modello autarchico nostalgico – di vecchia ispirazione – dovuto a una necessità economica-imprenditoriale per l’Europa? Per fare la transizione energetica e digitale senza dipendere troppo dall’estero (specie dalla Cina), l’Italia deve riaprire le miniere. È questo l’indirizzo che arriva dall’Ue, che ha individuato 34 materie prime critiche per la transizione verde e digitale, e ha previsto che i singoli Stati facciano una ricognizione dei loro giacimenti e avviino le estrazioni possibili.

    I siti minerari abbandonati di potenziale interesse sono sparsi lungo tutta la penisola. Secondo un rapporto dell’Ispra, al 2006 le miniere dismesse erano 2.990 in Italia. Ma al 2019, solo 94 hanno una concessione ancora in vigore e 76 sono i siti che risultano in produzione al 2020. 562 siti minerari dismessi o abbandonati presentano un grado di rischio ecologico-sanitario da medio ad alto. Di questi quasi 100 siti minerari, solo alcuni riguardano materie prime critiche.

    A fare gola in Puglia sono i giacimenti di bauxite, già inseriti nell’elenco predisposto dal Mimit. Vecchi siti abbandonati da tempo che potrebbero tornare utili, ma con quali costi per l’ambiente e un territorio vocato all’attrazione naturalistica? Insomma, l’autarchia potrebbe fare bene all’economia italiana ma impattare, con danni non calcolabili, su quella pugliese.

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    Editoriali L'Editoriale

    Se domanda e offerta si disallineano

    La riforma della filiera formativa tecnologico-professionale secondo il modello 4+2 è legge. E il definitivo via libera da parte della Camera arriva in concomitanza della pubblicazione di uno studio, condotto da Prometeia e Legacoop, sul disallineamento tra domanda e offerta di lavoro nel nostro Paese: una indagine che probabilmente richiede al Governo uno sforzo ulteriore per evitare che tanti giovani e meno giovani restino ai margini del mercato del lavoro soprattutto nel Mezzogiorno.

    I dati sono inquietanti: di qui al 2030, per effetto del calo demografico, mancheranno all’appello 150mila lavoratori l’anno con la conseguenza che la platea degli occupabili si ridurrà di circa 805mila unità. Altrettanto preoccupante è la statistica riguardante le difficoltà nel reperire personale: nel 2023 il 45% delle assunzioni pianificate era difficile da portare a termine, con sensibili differenze; per i lavoratori a basso livello d’istruzione, il problema è la numerosità perché sono più del 50% rispetto alla domanda; per quelli ad alto livello d’istruzione, invece, il problema è il disallineamento tra la loro specializzazione e quella richiesta dal mercato. E poi c’è il problema dei Neet: dopo la Romania, l’Italia ha la più alta percentuale di giovani che non studiano né lavorano, con punte preoccupanti in regioni meridionali come Calabria, Sicilia e Puglia.

    In questo contesto si inserisce la riforma Valditara che rivede in via sperimentale i percorsi formativi degli istituti tecnici e professionali in quattro anni di studi superiori, agganciandoli al percorso biennale degli Its che hanno l’obiettivo di formare tecnici di alta specializzazione. Il diploma, però, consentirà anche l’accesso all’università o direttamente al mondo del lavoro. La filiera introdotta a partire dal prossimo anno è costituita da specifici percorsi sperimentali quadriennali del secondo ciclo di istruzione e dai percorsi formativi degli istituti tecnologici superiori (Its Academy), oltre ai percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFp) e dai percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts). Si prevedono il rafforzamento delle competenze nelle materie di base, dove i rendimenti sono più bassi per gli studenti degli istituti tecnici e professionali, e l’ampliamento delle competenze specialistiche, con maggiori attività di laboratorio, incremento delle attività in azienda e presenza tra i docenti anche di esperti provenienti dal mondo del lavoro. Nell’ambito della filiera, Regioni e Uffici scolastici regionali possono stipulare accordi per integrare e ampliare l’offerta formativa dei percorsi sperimentali e dei percorsi di istruzione e formazione professionale, in funzione delle esigenze specifiche dei territori.

    Si tratta di una riforma tanto coraggiosa quanto necessaria, se si considera che la mancanza di manodopera è il primo problema per lo sviluppo aziendale, ben davanti ai costi delle materie prime, e in alcuni settori e territori lambisce addirittura il 60%. Ecco perché, come precisato dai vertici di Legacoop, occorre un cambio di mentalità: istruzione, formazione, politiche attive del lavoro sono la soluzione sia ai problemi delle persone sia del sistema produttivo. Perciò sono indispensabili interventi per adeguare le competenze alle necessità del mondo del lavoro e un approccio pragmatico e non ideologico al tema dell’immigrazione: la riforma Valditara è un primo passo, ma adesso al Governo tocca fare il secondo. Nell’interesse di tutti, a cominciare dai giovani del Sud.

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