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Carabiniere aggredito a Locorotondo, il sindacato: «Un codice rosso anche per noi» – L’INTERVISTA

«L’episodio dell’aggressione di Locorotondo fotografa la grande insicurezza in cui è costretto a lavorare il personale militare e delle forze di polizia in generale». Parte da qui l’analisi di Cataldo Demitri, segretario regionale per la Puglia del Nuovo sindacato Carabinieri.

Qual è la situazione per voi militari e poliziotti?

«Il personale delle forze di polizia non è per nulla tutelato. Le regole di base del nostro ingaggio sono antiquate e non adatte a fronteggiare le molteplici situazioni che ci si presentano tutti i giorni nello svolgimento del nostro lavoro. Il caso di Locorotondo è solo l’ultimo di una serie di episodi quotidiani che vedono protagonisti gli operatori delle forze di polizia. Veniamo continuamente insultati e aggrediti, oltre ad agire in contesti pericolosi e violenti».

Quali sono le regole?

«La linea guida principale a cui ci dobbiamo attenere è di evitare in tutti i modi possibili di arrivare al contatto con il soggetto che viene fermato. Ormai gli agenti hanno paura a intervenire per garantire la sicurezza e prevenire e reprimere i reati, anche perché qualsiasi conseguenza è a carico nostro. Sono situazioni che demotivano il personale. Ogni minimo errore può scatenare una denuncia, un processo penale, provvedimenti disciplinari, blocchi di carriera. A cui vanno aggiunte le spese legali e le conseguenze economiche e psicologiche. L’operatore di polizia può essere sospeso e subisce una serie di svantaggi».

Per garantire la sicurezza degli agenti recentemente è stato introdotto l’utilizzo dei taser. Quali sono le linee guida che dovete seguire per utilizzarlo sul campo? Serve davvero a tutelare agenti e militari?

«Il taser è uno strumento valido perché evita il contatto tra operatore di polizia e soggetto fermato, respingendo la violenza. Ma nasce già come estrema ratio per bloccare qualcuno. Il suo utilizzo, infatti, non è così immediato poiché innanzitutto vanno rispettati tre principi: la proporzionalità rispetto al pericolo, la necessità dell’uso e l’adeguatezza. Oltre a questo, l’utilizzo del taser per l’operatore di polizia si divide in cinque passaggi obbligatori: l’individuazione del pericolo, l’annuncio dell’utilizzo, mostrare l’arma al soggetto, fare un avvertimento con puntamento nei confronti del soggetto e infine l’uso vero e proprio con l’esplosione dei due dardi. Tutti questi passaggi vanno espletati nell’arco di pochi minuti e l’operatore di polizia deve decidere velocemente e in situazioni di pericolo (sia per sé che per la persona sulla quale si sta intervenendo) se ricorrere al taser oppure no. Questo strumento va utilizzato con cautela anche per salvaguardare la vita altrui, non possiamo prevedere in anticipo come il soggetto reagirà alla scarica elettrica. Per quanto riguarda l’Arma dei carabinieri, al momento l’abilitazione all’uso del taser è prevista solo per i nuclei radiomobili e non per i militari dei comandi stazione. Anche se l’amministrazione sta progressivamente agendo per estendere anche a loro l’utilizzo. Ma resta la paura da parte degli operatori a utilizzarlo».

Come mai?

«A luglio del 2024 in Alto Adige due militari hanno usato il dispositivo su un soggetto che si era reso estremamente violento e a seguito di questo dopo due ore è morto in ospedale. Certo è un mezzo che lo Stato ci fornisce ma come conseguenza di questo episodio c’è stata una campagna mediatica a suo sfavore, i colleghi sono stati sottoposti a indagine e a provvedimenti disciplinari. Automaticamente ci ritroviamo sempre in svantaggio. Gli operatori di polizia non possono utilizzare i mezzi perché sono più i rischi a cui vanno incontro che i benefici. Le forze di polizia dovrebbero garantire la sicurezza dei cittadini ma allo stato attuale delle cose non riescono nemmeno a proteggere loro stessi».

Quali potrebbero essere allora le soluzioni per tutelare gli operatori della sicurezza?

«Andrebbe proposto un dispositivo simile al Codice rosso che viene applicato in caso di violenza sulle donne, sia fisica che verbale, certo con tutti gli adeguamenti e gli aggiustamenti del caso. Noi operatori di polizia non possiamo toccare nessuno, e va bene, ma allora nemmeno noi dobbiamo essere toccati perché quando siamo in servizio rappresentiamo lo Stato che deve garantire l’incolumità di tutti. Il mio appello come rappresentate sindacale della regione Puglia è quello di attenzionare tutti questi episodi che si verificano, perché tutti i giorni migliaia di carabinieri vengono aggrediti fisicamente. Fa più scalpore un militare che utilizza il taser e provoca un danno, involontario, che un violento che picchia un agente. E aggiungo un ultimo elemento: queste persone sanno che se si macchiano del reato di oltraggio a pubblico ufficiale non sono esposti a chissà quali conseguenze, non sempre vengono arrestati e se lo sono riconquistano la libertà quasi immediatamente. Tra l’altro perché esista la fattispecie del reato devono esserci per forza più persone. Se l’oltraggio avviene magari in una strada buia e senza testimoni, non possiamo rivalerci legalmente».

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Diritto & Economia

Dispositivi medici e payback, Dentamaro: «L’impatto sulle imprese è pesante» – L’INTERVISTA

Con due sentenze pubblicate il 22 luglio 2024, la Corte Costituzionale è intervenuta sul meccanismo del payback sui dispositivi medici, dichiarandone la legittimità costituzionale. La questione era stata sollevata dal Tar Lazio il 24 novembre 2023, dopo che erano pervenuti circa 2mila ricorsi promossi dalle aziende del settore. A spiegare le conseguenze di tali sentenze è l’avvocato Nicola Dentamaro.

Come possiamo inquadrare la questione dal punto di vista legale?

«Le sentenze sono state due, e una ha avuto conseguenza diretta sull’altra. Per spiegarlo va prima fatta una ricostruzione degli ultimi due anni: il governo ha stanziato un fondo che copriva il 52% degli importi richiesti alle aziende per il payback. A fronte dei due miliardi richiesti l’importo era stato dunque ridotto a un miliardo con decreto legge. Questo prevedeva un termine per accettare il beneficio dello sconto a fronte della rinuncia di tutte le aziende ai ricorsi proposti dinanzi al Tar Lazio. Il decreto è stato impugnato con richiesta di rinvio alla Corte costituzionale, che con la prima delle due sentenze che abbiamo citato, ha statuito che è illegittimo il termine per l’accettazione. Più in dettaglio ha esteso il miliardo di riduzione a tutte le aziende, sia che avessero accettato il beneficio dello sconto sia che avessero proseguito i ricorsi. È stata applicata in maniera piana, a tutti gli importi, una riduzione del 52%. Le due sentenze sono collegate perché la Corte costituzionale, chiamata a valutare la proporzionalità e la ragionevolezza del provvedimento, ha stabilito che, data la riduzione stabilita del 52%, gli importi previsti per il periodo 2015-2018 risultano proporzionali e ragionevoli».

Quali sono le conseguenze?

«Da un lato la Corte ha dato la possibilità a tutte le aziende di aderire alla riduzione del 52%, dall’altro lato ha tolto dicendo che il payback è legittimo perché proporzionale. Forse sarebbe stato meglio che nessuno avesse impugnato quella prima legge. L’esito sarebbe stato diverso in termini di proporzionalità. Ma questa mi sembra più una sentenza politica che giuridica. L’impatto sulle imprese sarà pesantissimo: in questo settore sono quasi tutte piccole e medie realtà con fatturati non troppo alti. Quella che viene richiesta dallo Stato e una liquidità da versare immediatamente. Si tratta di un problema reale, anche perché lo Stato si è assicurato di avere un sistema di recupero coattivo di queste somme: il payback prevede che, laddove le aziende non dovessero pagare, le Asl possono interrompere il saldo delle forniture. Le aziende dunque sarebbero obbligate a continuare a fornire dispositivi a pena di incorrere nell’interruzione di pubblico servizio, che è un reato penale, ma possono non essere pagate fino al raggiungimento dell’importo dovuto».

La sentenza della Corte parla di contributo di solidarietà.

«Non so come si possa parlare di contributo di solidarietà nel momento in cui la sanità viene rifornita da diversi tipi di soggetti, invece sono stati attinti dalla norma soltanto chi fornisce dispositivi medici, la parte più importante della fornitura della sanità pubblica. E chi dovrebbe essere un asse strategico viene invece penalizzato. Al contrario delle aziende del privato accreditato che non vengono toccate da queste sentenze ma che usufruiscono lo stesso delle finanze pubbliche».

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Bari Persone Storie

A Raffaella Cavone il premio America Giovani: «Già da bambina scrivevo sentenze» – L’INTERVISTA

Cervelli che restano e che colgono le occasioni offerte dal proprio territorio; la bella gioventù che s’impegna e guarda con fiducia a un futuro lavorativo.

Raffaella Cavone ha 22 anni, parla velocemente e con chiarezza e i suoi pensieri manifestano una maturità notevole. È nata a Bari e il suo percorso formativo, fino alla laurea in Legge all’università “Aldo Moro”, è tutto barese e decisamente brillante. Fin qui la storia assomiglia a tante altre, vedi le vicende di quelle ragazze in gamba che non scelgono di frequentare l’università in giro per il mondo.

Cosa c’è di più in questo caso? Un invito speciale dalla Fondazione Italia Usa. Il 9 settembre Raffaella è attesa a Roma, alla Camera dei deputati, per ricevere il prestigioso premio “America giovani” al talento universitario, un riconoscimento per neolaureate e neolaureati meritevoli in diverse discipline: ogni anno mille eccellenze, in Italia, provano un’emozione da ricordare e da far fruttare.

Raffaella, sorpresa? Il 15 aprile scorso ha provato la gioia della laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti, 110 e lode con menzione, e il 15 luglio un’altra notizia tutta da vivere.

«Sono felice e non mi aspettavo una simile chiamata».

La prima cosa che ha fatto?

«Informarmi sulla Fondazione e capire che si tratta anche di una bella opportunità. Non sono ammesse autocandidature. I giovani, oltre a ricevere la pergamena durante la cerimonia, hanno la possibilità di immatricolarsi gratuitamente a un master online in “leadership per le relazioni internazionali e il Made in Italy”. Un corso di specializzazione della durata di 12 mesi. Un bel biglietto da visita per il mondo del lavoro».

Facciamo un passo indietro: si è diplomata al liceo classico “Quinto Orazio Flacco” con indirizzo internazionale e della durata quadriennale, brava anche tra i banchi di scuola?

«Mi è sempre piaciuto studiare, senza mai toglier tempo alle mie passioni come il tennis, il nuoto e la danza. Non sono una secchiona, mi piace la vita sociale ma aprire libri, leggere e imparare cose nuove mi ha sempre affascinata e mi sono entusiasmata verso le materie umanistiche. Da bambina mi divertivo a “scrivere” le sentenze».

Ha vissuto e vive in una famiglia dove il diritto è pane quotidiano. I suoi genitori, entrambi giuristi, l’hanno stimolata?

«Inconsapevolmente, direi. Le dico che mio padre, dopo la maturità, voleva che scegliessi Medicina e mi iscrisse a vari test d’ingresso in diverse sedi, sperando in una mia carriera da medico. L’ho accontentato, ho provato a superare quei test ma nella mia mente c’era già e solo il diritto».

Durante la seduta di laurea magistrale ha affrontato l’argomento della maternità surrogata, la tecnica di fecondazione assistita in cui la donna porta avanti una gravidanza per conto di persone che poi diventeranno i genitori del nascituro. Come mai questa scelta?

«È un tema attuale, solleva dibattiti e mi riferisco alla Corte costituzionale che ha dichiarato inammissibile la questione. La discussione di laurea è durata 20 minuti, più del consueto. Mi sono laureata con il professor Domenico Costantino e colgo l’occasione per esprimere la mia riconoscenza nei confronti della formazione dell’università pubblica, spesso sottovalutata; tanti preferiscono andare in altre città».

Le piace la politica?

«Seguo quella nazionale e credo che in questo momento ci sia un problema di governance a livello globale e tutto ricade sulla nostra vita quotidiana».

Cosa vuol fare da grande?

«Vorrei diventare un magistrato. A maggio ho iniziato un tirocinio formativo che consiste nell’affiancare un magistrato. In più sto svolgendo la pratica forense».

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Attualità Bari Cronaca News

Violenze contro i medici, Palmisano: «Si sottovalutano i rischi per gli operatori» – L’INTERVISTA

«La tragedia di Paola Labriola non è servita a prevenire efficacemente questi fenomeni di violenza nei confronti di operatori sanitari e pubblici ufficiali». A sottolinearlo è il sociologo Leonardo Palmisano.

Cosa c’è all’origine di questi fenomeni?

«Sottovalutiamo i rischi che corrono quotidianamente gli operatori che vengono raggiunti dall’utenza, soprattutto in contesti delicati come quelli sanitari. Ma è solo un pezzo dell’analisi. Importante è la considerazione che hanno le famiglie italiane dei servizi pubblici e quello che pretendono da questi ultimi. I medici vengono aggrediti da quelle stesse famiglie che quando un ragazzino ha problemi a scuola, aggrediscono gli insegnanti e i dirigenti. Il clima culturale che è stato alimentato nel paese è quello di pensare che il servizio pubblico debba risolvere immediatamente qualsiasi problema. E quando questo non avviene si sfocia nella violenza, non solo contro le persone ma anche verso le strutture come i pronto soccorso».

Questo cosa testimonia?

«Vuol dire che tu utente innanzitutto non riesci a capire che la medicina è una scienza e che spesso una persona non può essere salvata, nonostante tutti gli sforzi. E poi emerge il tratto dell’egoismo, che è un’aggravante: se si devastano gli arredi di una guardia medica o di un pronto soccorso, il tuo egoismo arriva fino al punto di mettere fuori gioco una struttura che non serve solo a te ma a tutta la collettività».

Ci può essere una soluzione?

«Forse è arrivato il momento di prendere in considerazione l’idea di non permettere più l’accesso dei parenti dei pazienti dove c’è un livello di prossimità strettissimo con l’operatore sanitario, come avviene in altri stati europei. A questo va affiancata una rieducazione delle persone adulte. Per quanto riguarda invece le aggressioni nei confronti delle forze dell’ordine, invece, qui la situazione è ancora più incancrenita. Quante volte noi sottovalutiamo i cori contro polizia e carabinieri nelle curve degli stati? Sono decenni che sentiamo i tifosi inveire contro gli agenti. Sono tutti pezzi che alimentano quel sentimento anti statale, molto radicato in Italia. Sono due fenomeni diversi ma che rivelano una cattiva educazione e l’idea che la violenza possa essere l’unica soluzione ai problemi e ai “torti” ricevuti. Bisogna iniziare a lavorare sulla prevenzione della violenza».

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Attualità News Puglia

Aeroporti di Puglia, Vasile: «È l’anno zero, cambia la vita dei passeggeri» – L’INTERVISTA

«Miglioreremo la vita dei pugliesi e di tutti gli ospiti in transito nei nostri aeroporti». Ne è convinto il presidente di Aeroporti di Puglia, Antonio Maria Vasile.

Presidente, che valore ha l’approvazione del nuovo contratto di programma 2024-2027?

«Si tratta di una specie di anno zero. Finalmente si guarda al futuro. Il documento certifica la strada che abbiamo davanti, cioè tutto quello che faremo nei prossimi quattro anni. La vita del passeggero cambierà».

Più attenzione ai servizi. In che modo?

«In questi primi quattro anni abbiamo investito pesantemente su piste e su tutte le infrastrutture di volo. Adesso ci concentreremo proprio sull’aerostazioni, che esprimono la qualità verso il passeggero. Inoltre la rete pugliese ti consente di spalmare il traffico su tre scali, cosa che fa crescere l’infrastruttura ovviamente, ma anche il territorio in maniera proporzionale».

Il Salento, con l’aeroporto di Brindisi, lamenta però di essere penalizzato dalle compagnie low cost, che spesso preferiscono investire nel capoluogo. Cosa fare?

«Con una organizzazione centralizzata l’obiettivo per il futuro è cercare di spalmare i voli su tutti gli scali pugliesi. Nei prossimi due o tre anni ci sarà una rivoluzione del settore. Però si fa finta di non vedere e questo è un peccato, perché siamo in una guerra intestina tra la Repubblica di Salento, di Foggia e di Bari. A breve avremo anche un altro aeroporto collegato con una ferrovia, proprio quello di Brindisi».

Nel piano si sottolinea l’aspetto della sostenibilità. Come si traduce in maniera concreta?

«Con l’installazione del fotovoltaico realizzeremo 100 megawatt di energia elettrica. Per dare un’idea un aeroporto consuma 5 megawatt, avremo quindi un esubero di 95 che potremmo potenzialmente vendere. La rete aeroportuale pugliese funzionerà da protezione per tutto il territorio. Sono sicuro che convinceremo tutti della bontà delle nostre azioni».

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News Puglia Salute

Medici aggrediti in Puglia, Anelli: «La sanità va rifinanziata. Non lavoriamo armati» – L’INTERVISTA

«In questo mese quattro medici hanno denunciato aggressioni in Puglia, noi a lavoro non possiamo andare armati», a parlare è Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici.

Presidente ma perchè questa escalation, che cosa sta accadendo?

«Le persone hanno fiducia nei medici è la figura professionale a cui si affidano di più, lo dice una indagine di demoskopica e si aspettano giustamente delle prestazioni di un certo livello, poi per la tempistica, per i mezzi (sempre più scarsi) restano delusi da un servizio. Diciamo la verità il sistema sanitario è al collasso. Siamo in piena emergenza».

Troppi gli episodi di violenza.

«Guardi sono tantissimi, va rivista l’organizzazione in se’ anche per i Pronto Soccorso, per le guardie mediche. Non dimentichiamo a Bari la morte della Labriola, qualche anno fa, uccisa con 57 coltellate. Ma noi che dobbiamo fare? Dobbiamo andare a lavoro armati? E’ stato costituito un osservatorio che dovrebbe registrare un monitoraggio sul fenomeno, ma mi creda qui abbiamo bisogno di fatti concreti, basta parole. Non è più il tempo».

Ma non ci sono dei presidi di sorveglianza?

«Mica ovunque. Pensi a che cosa è accaduto alla collega a Maruggio, in un posto periferico. Lasciata sola. Di notte. Che cosa poteva fare? Forse neanche chiedere aiuto. Va cambiata la logistica, l’organizzazione. Ma subito».

Quando si riferiva che necessitano fatti concreti si riferiva a questo, alla sicurezza?

«Non solo. Vede col governo Draghi sono stati stanziati 15 miliardi, mi riferisco al Pnrr, per ospedali, strutture, tutto perfetto, ma le assunzioni? Chi ci mettiamo dentro? Manca il personale, che non è solo medico, ma anche infermieristico. Abbiamo turni massacranti e medici che vanno via. Ma le ripeto non mi riferisco solo al caso di Manduria, dove la giovane dottoressa ha deciso di gettare la spugna. Sono tanti i casi e attraversano tutta l’Italia, l’altro giorno a Castellammare, subito dopo Manduria».

Che cosa serve?

«Intanto rendersi conto che oramai le parole sono finite, non servono più, non sappiamo che farcene. O c’è un’inversione reale del sistema, oppure ci sarà una grande mobilitazione della sanità perché i cittadini non vogliono perdere questo Sistema sanitario nazionale, che è un diritto di tutti. Invece oggi andiamo sempre di più verso una sanità a pagamento: se i medici vanno via, vanno a lavorare nel privato. La presidente Giorgia Meloni deve intervenire il fatto che i medici pubblici si dimettano è il sintomo che il sistema non regge più. Bisogna intervenire, finanziare di più la sanità. Serve rendere il servizio pubblico più attrattivo perché i medici tornino a volerci lavorare».

Ma in Puglia non stiamo bene?

«Guardi dico solo che in Europa per posti letto l’Italia è tra le nazioni peggiori con un indice di 3.1, in Puglia per posti letto siamo ad un indice del 2.8, 2.7. Non credo proprio che stiamo messi bene».

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Attualità Foggia News

Aggressione omofoba nel Foggiano, Rizzi (Arcigay): «Sono all’ordine del giorno» – L’INTERVISTA

Ha suscitato rabbia e scalpore l’aggressione omofoba ai danni del 57enne Michel, cittadino di San Giovanni Rotondo. Due minorenni lo hanno prima colpito al volto e poi hanno infierito con calci e pugni quando la vittima era a terra, causandogli un trauma cranico e lesioni maxillofacciali. Dopo le reazioni istituzionali e il sit-in di solidarietà organizzato nel comune garganico, a parlare è la presidente di Arcigay Foggia “Le Bigotte”, Alice Rizzi.

L’aggressione capita a poche settimane da quella avvenuta a Foggia, in piazza Mercato, altrettanto violenta. È lecito pensare a una sorta di effetto emulazione o c’è dell’altro?

«Più che emulazione esiste un problema serio di omotransfobia. Come associazione, facciamo spesso incontri di sensibilizzazione nelle scuole e qui troviamo ragazzini di terza media che dicono che il pride è una pagliacciata: sono frasi che vengono loro dette e che confermano il problema. Bisogna occuparsene e farlo a livello educativo: l’omofobia nel nostro Paese è un fatto culturale e perché cambi occorre affrontarlo con strumenti culturali».

A proposito del sit-in di solidarietà del 16 agosto: molti sostengono che queste risposte pubbliche, di piazza, siano inefficaci. È così?

«Abbiamo sostenuto la manifestazione delle compagne di Koll.Era proprio perché crediamo che le risposte pubbliche invece siano efficaci, intanto perché ricordano all’aggredito che esistono comunità di persone differenti, poi perché fanno capire agli aggressori che non siamo disposti ad abbassare la testa. Quando poi certi fatti accadono in luoghi simbolo, come avvenuto a piazza Mercato, un posto particolarmente conflittuale, allora le manifestazioni hanno ancora più valore».

Sempre Koll.Era ha parlato di episodi di violenza omolesbobitransfobica all’ordine del giorno. È davvero così?

«Sì, le aggressioni sono all’ordine del giorno, per fortuna non tutte sono così gravi come quella di Michel, tanto che alcuni le chiamano micro aggressioni. Tuttavia, per chi vive la marginalità, queste sono aggressioni a tutti gli effetti che fanno male proprio perché vengono ‘scambiate’ con il gioco, lo scherzo o altro. A queste si aggiungono anche episodi di misoginia e maschilismo, anch’essi frequenti. Spesso sono sottovalutati e sottostimati».

Qual è il problema di questi ragazzini violenti?

«Difficile dirlo. Forse va ricercato nelle famiglie, a scuola. Luoghi in cui spesso il seme dell’omotransfobia germoglia. Purtroppo siamo un Paese che ha un codice culturale bigotto e omofobo. Ma tutto ciò che non cambia è destinato a morire e anche la nostra cultura, a piccoli passi, sta cambiando. Noi dobbiamo accompagnare questo cambiamento».

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Attualità News Puglia

Al Bano si confessa: «La mia vita? Una tragedia pugliese. Con Romina un grande amore»

Non è il caso di dire “buona la prima”. Quando all’ora stabilita provo a raggiungere Al Bano al telefono, scatta la segreteria telefonica. «Tim, messaggio gratuito…». E le speranze di intervistare il cantante salentino si avvicinano improvvisamente, irrimediabilmente allo zero. Un’ora squilla il telefono. «Eccoci, sono Albano». Il cantante è appena atterrato all’aeroporto di Brindisi, dopo qualche giorno di vacanza in Sardegna.

Come nasce Al Bano cantante?

«Ho sentito già all’età di 6 anni la voglia di cantare. Poi ho capito che potevo farlo anche di professione. È successo in maniera spontanea, a casa cantavano tutti. Mio padre era un contadino, il rapporto tra il canto e la cultura contadina è consequenziale».

E se non fossi riuscito a fare il cantante?

«Non ho mai pensato di fare un altro mestiere. Tutto quello che avevo in mente di fare è arrivato grazie al lavoro intenso e alla dedizione».

Gli inizi a Milano negli anni ’60.

«Dopo i primi approcci qui in Puglia ho capito che non era la terra giusta per sviluppare quello che avevo in mente. E allora Milano».

Che era una città completamente diversa da quella che è oggi…

«Gli unici terroni eravamo noi del sud Italia. Oggi è una città multietnica, multilingue, “multidelinquenza”, multi tutto. È cambiata tanto, peccato».

C’è qualcosa in particolare che ricorda con nostalgia?

«La nebbia che non finiva mai. Ti annullava, eri da solo in mezzo a una città che non vedevi».

La leggenda la vede da ragazzo sempre al centro di scazzottate…

«Il Vangelo dice “porgi l’altra guancia”. Io invece sono stato sempre in difesa, per far capire che non ero un soggetto facilmente addomesticabile».

Ha iniziato con “Il Clan” di Celentano. Cosa ha rappresentato per lei quell’opportunità?

«Un miracolo. Ci sono entrato nel 1964, lavorando con lui 2 anni. Eppure gli sono sempre stato lontano, per rispetto e timidezza».

Che tipo era Celentano?

«Lo osservavo molto, cercando di carpirne l’intelligenza. Un istrione, l’uomo che ogni sera inventava un nuovo spettacolo. Gli stessi passi, gli stessi movimenti, le stesse luci, le rose: lo show business».

A cosa si ispirava da ragazzo quando scriveva?

«Ho sempre scritto di quello che mi toccava. Della tristezza che vivevo. Sono nato in una terra che potenzialmente aveva tutto per essere felice, eppure dovevo lasciarla. Prendere il treno, tagliare le radici, non è stato facile. Ma l’ho reso facile».

Sono limiti che vede ancora oggi nella Puglia?

«Fortunatamente le cose stanno cambiando. La Puglia non è più quella di una volta. Purtroppo però ha ricevuto uno schiaffo nell’anima, violento e immeritato: la moria degli ulivi millenari a causa della Xylella».

Dopo il “Clan” arriva il successo con “Nel sole”, il brano che le ha fatto conoscere Romina Power…

«È stata la chiave per entrare nel cinema, cosa che non mi aspettavo. Mi ha fatto incontrare i miei idoli Ciccio Ingrassia e Franco Franchi, oltre a Montesano e Loretta Goggi. E anche Romina. È stata una cosa arrivata senza cercarla, ma è andata così. È la vita».

Si può dire Romina sia stata il grande amore della sua vita?

«Si può dire tranquillamente».

Eravate la coppia d’Italia, sulle copertine di tutti i giornali…

«Un periodo straordinario, fantastico».

Pensa che questa attenzione mediatica ti abbia fatto percepire dal pubblico come personaggio prima che come artista?

«So perfettamente quello che mi è successo. E se il mio destino era quello, l’ho vissuto e affrontato».

Sembra fatalista se parla così.

«Da giovane ho letto molte tragedie greche. E tante cose che incontravo nei libri e non mi appartenevano, poi sono state parte della mia vita».

La sua vita come una tragedia greca quindi…

«La mia è una tragedia pugliese».

È stata la scomparsa di vostra figlia Ylenia a incrinare il rapporto tra voi?

«So che tutti hanno voglia di capire, di sapere. Io non ci sono riuscito, ma mi sono sempre affidato al buon Dio. Che sia fatta la sua volontà».

Parliamo di vino, una sua passione. Com’è fare il vinicoltore?

«Mi sto dedicando all’inaugurazione della mia terza cantina. Il vino fa parte del mondo della mia infanzia. Ovviamente non lo faccio come lo faceva mio padre, ma secondo i crismi di questa nuova era».

Cosa risponde agli attacchi che ha ricevuto dopo la stecca presa cantando l’inno nazionale, prima della scorsa finale di Coppa Italia?

«Dico che ho avuto un coraggio da animale. Chi mi critica vada a riascoltare la registrazione. Nessuno mi ha dato un accordo, come da patti. Sentivo solo le tifoserie delle squadre. Una cosa assurda. Poi ho conclusa alla “Al Bano”, inventando il finale nuovo. Con questo non voglio difendermi, ma solo spiegare in che condizione ho dovuto cantare. Aggiungerei dicendo agli italiani che quando c’è l’inno nazionale bisognerebbe alzarsi in piedi, tutti insieme, per onorare il Paese. E non c’entra chi sta cantando. In quel momento sono un italiano tra gli italiani. C’è stata invece maleducazione. Ma il buon Dio ci ha messo la sua mano. Una settimana dopo quell’episodio ho cantato per Papa Francesco, che ha fatto dei gesti bellissimi nei miei confronti. Dopo il mal tempo, il bel tempo».
Prima di telefonarle, parlando con un mio amico giornalista mi ha detto «stai attento alle domande che fai ad Al Bano, o ti manda a quel paese».

Perché ha la fama di avere questo caratterino?

«Sarei un coglione se non avessi un carattere (ride ndr). Ma come ti ho detto sono sempre in difesa mai in attacco. C’è stato un giornalista che rompeva le scatole, e gli ho mollato una sberla che mi è costata dieci mila euro. Ma sono un uomo di pace».

Vuole dire qualcosa a Putin in questo momento storico, che in passato è stato suo amico?

«Voglio dire qualcosa a Putin come a tutti gli altri. Signori, non giocate con le armi. Perché state facendo male soprattutto a voi stessi».

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Attualità Bari Cronaca News

Disordini nel carcere di Bari, Caiazza: «È la disfatta dello Stato. Rivolte e suicidi destinati ad aumentare»

«La vicenda di Bari non sorprende affatto. Anzi, sono certo che non si tratterà dell’unico episodio, viste le condizioni in cui vivono i detenuti e le misure recentemente varate dal governo Meloni»: ne è convinto Giandomenico Caiazza, avvocato tra i più affermati in Italia e per lungo tempo presidente dell’Unione delle Camere penali (Ucpi).

Avvocato, che cosa pensa dei fatti di Bari?

«Faccio una premessa: nessun atto di violenza o sopraffazione può essere accettato. Detto ciò, certi episodi drammatici sono la spia di una situazione esplosiva. Eppure qualche esponente del governo Meloni minimizza e si abbandona a dichiarazioni irresponsabili. Il sospetto è che manchi una totale comprensione della realtà».

E qual è la realtà?

«La realtà è fatta di dieci o 12 persone ammassate in celle che ne potrebbero contenere quattro con temperature che, al momento, sfiorano o addirittura superano i 40 gradi. Quelle dei detenuti sono condizioni di vita intollerabili e lesive della dignità umana, nelle quali può succedere qualsiasi cosa. Ecco perché episodi violenti come quello di Bari non sorprendono. Anzi, se ne verificheranno altri, come c’è da aspettarsi che anche i suicidi in cella aumenteranno».

Colpa del governo Meloni?

«La situazione delle carceri è la Caporetto dello Stato italiano. Ma questa disfatta ha molti padri, quindi non solo il governo Meloni. Di sicuro l’attuale esecutivo sembra aver firmato una cambiale con un certo elettorato. E questa cambiale impone parole d’ordine come “niente svuota-carceri” o una concezione della certezza della pena tutta orientata verso il carcere».

Quindi le misure recentemente varate dal governo Meloni per arginare il sovraffollamento sono insufficienti?

«A dir poco. Direi che sono provocatorie. Secondo il ministro Nordio, gli accordi volti a far sì che gli stranieri scontino la pena nel Paese di origine consentiranno di abbattere il numero dei detenuti di 5-10mila unità. Ma il ministro sa che significa identificare uno straniero, stipulare un accordo col suo Stato di provenienza e fare in modo che quest’ultimo gli faccia scontare la pena? Ancora, il ministro parla del trasferimento dei tossicodipendenti dalle carceri alle comunità. Ma sa che queste ultime sono da tempo al collasso? Certi annunci possono convincere chi non conosce la realtà del carcere, non altri. Non è serio dire certe cose».

Lei ha mai visitato il carcere di Bari?

«Con Ucpi e Radicali, oltre che per motivi professionali, ho visitato decine e decine di carceri. Inclusa la casa circondariale di Bari».

E che ricordo ne conserva?

«Ciò che accomuna tutte le carceri è l’odore nauseabondo che si percepisce al loro interno. E poi vedo ancora le persone ammassate, le brandine accatastate, i bagni a vista. Soprattutto, però, ricordo il senso di angoscia e di abbandono dei detenuti».

Una riflessione la meritano le Rems, visto che la rivolta di Bari ha avuto tra i protagonisti un paziente psichiatrico…

«Le Rems dimostrano come, in materia di detenzione, non ci sia una sola cosa dello Stato che funzioni. Perciò parlo di Caporetto dello Stato».

Come se ne esce?

«La proposta Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata mi sembra ragionevole. Consiste nell’aumentare i giorni di premio per i detenuti, in maniera tale da incrementare le scarcerazioni. Non sarebbe un meccanismo automatico, ma subordinato alla valutazione da parte del giudice e alla valorizzazione del comportamento positivo del detenuto. In questo modo, 10mila persone alle quali restano da scontare pochi mesi di reclusione potrebbero davvero abbandonare le celle».

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Puglia Sport

Fipav Puglia, Indiveri sulle azzurre di Velasco: «Più forti di sempre. Al punto finale ho pianto di gioia» – L’INTERVISTA

Dopo il successo storico alle Olimpiadi di Parigi delle azzurre di Velasco, tutto il mondo e appassionati sportivi si sono commossi e hanno applaudito le gesta compiute. Uno dei primi a lasciarsi andare di gioia è stato il presidente della Fipav Puglia, Paolo Indiveri che ha risposto alle nostre domande.

Una vittoria forse annunciata con Julio Velasco, ma per nulla scontata?

«Lo sintetizzo con due parole: semplicemente straordinarie. Una squadra equilibrata, forte in tutti i reparti. Vero, hanno rispettato i pronostici ma non era semplice e se si considera che hanno perso solo un set, si capisce ancora di più l’entità dell’impresa».

Azzurre guidate da una leggenda vivente quale Julio Velasco, quanto ha influito?

«Julio è stato chiamato dalla Federazione a quattro mesi dall’Olimpiade. Ha lavorato tantissimo sulla teste delle ragazze, ricostruito un gruppo solidissimo e forse la nazionale femminile più forte di sempre anche se ora dovranno continuare. Grandi meriti vanno anche al suo staff e al nostro immenso presidente nazionale Giuseppe Manfredi, tra l’altro pugliese (di Alberobello, ndr)».

Paolo Egonu, stratosferica. Le polemiche scaturite sono fuorvianti e inopportune. È d’accordo?

«Paola è un simbolo della pallavolo. È la giocatrice ad oggi più forte al Mondo. Da sola ha realizzato 22 punti. Ha un talento smisurato e merita questa vittoria olimpica. Sulle questioni politiche non entro neanche nel merito perché lo sport deve restare bellezza assoluta senza strumentalizzazioni».

Alessia Orru, anche lei è stata determinante.

«Il palleggiatore vive in funzione della ricezione delle difese, nel caso specifico lei va oltre gli schemi, è stata bravissima a farsi trovare sempre al posto giusto, a saper leggere i momenti. Velasco ha creato un’alchimia perfetta tra tutte le ragazze: penso alle nostre schiacciatrici quali Sylla e Bosetti con medie impressionanti. Senza dimenticare la nostra leader e libero, Monica De Gennaro, ripagata a 37 anni dei tanti sacrifici, un vero esempio per tante atlete».

È esagerato parlare di “nuova generazione di fenomeni”?

«Dovremmo vedere nell’arco del tempo, ai successivi europei e mondiali. Godiamoci questo oro, un premio alla visione e lungimiranza del presidente federale, ai grandi sacrifici delle atlete, del suo C.t. e staff e così via, di tutti coloro che ci hanno creduto».

Domenica, presidente, è stato impossibile contattarla, immaginiamo il motivo.

«Sono state ore convulse, sul 23esimo punto del terzo set sono scoppiato in lacrime come un bambino, non me ne vergogno. Sentivo tantissimo la gara e avvertivo che mancava qualche minuto al successo. Mia figlia è corsa ad abbracciarmi perché consapevole anche dei miei sacrifici per la pallavolo. È stata una gioia indescrivibile e incomparabile ad altre. Due anni fa la nazionale maschile di un altrettanto grande De Giorgi, mio conterraneo, ci ha fatto emozionare e gioire, domenica è toccato alle ragazze. Mi scuso ai tanti che non ho potuto rispondere, dopo il successo della nazionale giovanile, auspico sempre più che il movimento continui a crescere».

Un successo anche made in puglia, con la Di Vagno e Miale.

«Una gioia condivisa anche per la Puglia con Maira (Di Vagno, ndr) la fisioterapista azzurra e Vanni (miale, ndr) preparatore atletico, entrambi fortemente voluti da Julio Velasco. Quando i particolari fanno la differenza».

Ritiene che la truppa di De Giorgi ha ricevuto critiche troppo severe?

«La nazionale maschile ha disputato una prima parte di Olimpiade straordinaria specie battendo Brasile e Polonia. L’impresa in rimonta ai quarti col Giappone è stata fantastica ma molto dispendiosa e poi abbiamo trovato la Francia di Giani, allievo di Velasco che mi congratulo e vinto con merito. Ma sono sicuro che la Nazionale di Fefè si rifarà, lo ha già dimostrato e con maggiore esperienza si riscatta».

E ora, quando vedremo la Nazionale di Velasco a Bari?

«Non è semplice, ma vedremo magari in un test match dei prossimi Europei, per la maschile o femminile».

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