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Brindisi Cultura e Spettacoli

Giuseppina Torre in Puglia per Bari in Jazz: «Il pianoforte? Mi ha salvato la vita» – L’INTERVISTA

Giuseppina Torre è una donna piena di vita. La raggiungo al telefono, l’accento dice subito Sicilia orientale, la conversazione è così informale che il “Tu” arriva spontaneo dopo la prima domanda. Pianista eccezionale, da Ragusa, in Sicilia, a Los Angeles, dove nel 2013 è stata premiata con due statuette ai Music Awards. Ha suonato per Papa Francesco, le è stata conferita l’onorificenza di “Cavaliere dell’Ordine al Merito” della Repubblica Italiana. Un percorso niente male, verrebbe da dire. Sabato la pianista si esibirà presso il Minareto di Fasano – Brindisi, alle 21, all’interno della rassegna Bari in Jazz 2024.

Qual è il primo ricordo che associ al pianoforte?

«Un pianoforte giocattolo, che mi fu regalato all’età di 4 anni da mio zio. È stato un colpo di fulmine: quel gioco è diventato il mio amico per la vita, la mia passione. Dico sempre di essere sposata con il mio strumento, lui c’è sempre stato per me. Riproducevo le canzoni che ascoltavo alla radio, inventavo le prime melodie. Volevo già andare a lezione, ma i miei genitori pensarono fosse solo un fuoco di paglia. Negli anni ci trasferimmo in un condominio dove abitava un maestro di musica, iniziai a tartassare i miei, fino a convincerli. L’inizio me lo sono sudato (ride ndr)».

Con te la parola “pianoforte” è seguita inevitabilmente dalle scarpette rosse. Raccontami.

«È un anno e mezzo che poggio le mie scarpe rosse sul pianoforte. Simbolo di passo, di movimento: il primo passo per il cambiamento. L’icona internazionale della lotta contro la violenza sulle donne. Le uso per scuotere gli animi. In alcuni posti nel mondo, come in Corea del Sud, non ne conoscevano il significato. Sono fiera di avere piantato un semino, aver diffuso questo simbolo nel mondo. Che da quel seme ne cresca un forte albero, la mia speranza».

È un tema, quello della violenza, che ti riguarda da vicino?

«Parte tutto da una storia vissuta in prima persona. Conosco bene tutte le dinamiche e le problematiche dell’argomento. So quanto per una donna sia difficile denunciare. Al di là della violenza fisica, c’è quella psicologica, quella invisibile. C’è poi una terza forma: quella economica. Tante donne, economicamente dipendenti dall’uomo, non denunciano, rimanendo in trappola».

Qual è l’esperienza che hai vissuto?

«Sono stata vittima di violenza tra le quattro mura domestiche. E quello che dico alle donne è: denunciate. Anche se la giustizia in Italia ha tempi piuttosto lenti, bisogna aver fiducia nelle autorità».

Ti sei sentita tutelata dalle autorità quando hai trovato il coraggio di denunciare?

«All’inizio no. C’è un periodo critico, debole: quello che va dalla denuncia all’inizio del processo. Sei un bersaglio mobile.
Nonostante l’istituzione del “codice rosso”, per tutelare le donne che denunciano, poi abbiamo tristemente assistito a tante di loro che sono state uccise ugualmente. C’è ancora qualcosa da migliorare nelle leggi, le donne hanno bisogno di maggior tutela».

Quanto è stata importante la musica in questa fase della tua vita?

«Fondamentale. È stata la mia isola felice sulla quale rifugiarmi, dove attenuare il dolore. Mi ha aiutato a ricostruirmi, come donna e come artista».

Che esperienza è stata suonare per il Papa?

«Meravigliosa. Papa Francesco parla un linguaggio semplice. Suonare la mia musica – che punta diritta al cuore – per lui, in Vaticano, è stato un onore immenso. La figura del Papa ritorna di continuo la mia carriera. Ho avuto infatti l’onore di comporre le musiche di un docufilm tratto dal suo libro. Questa opportunità è arrivata in un momento molto delicato, quando avevo deciso di abbandonare la musica. Leggere il libro del Papa mi ha fatto tornare sui miei passi».

Lei è stata nominata “Cavaliere della Repubblica” da Mattarella…

«Un orgoglio. Ricevere questo riconoscimento, per meriti sia artistici che sociali, mi da la consapevolezza che sono sulla strada giusta. Da artista ti metti sempre in discussione, ma questa consacrazione mi ha dato la forza e il coraggio per vivere di musica, e per la musica».

Il prossimo progetto?

«Mi sto lanciando in una nuova avventura, c’è un’idea che sto sviluppando. Non posso anticiparti nulla, ma ti dico che sarà un progetto che mi racconterà, mi metterà, ancora, a nudo».

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Cultura e Spettacoli Foggia

“È stato un tempo il mondo”, parla Franco Arminio: «Scrivere è come tornare a casa» – L’INTERVISTA

Franco Arminio è un poeta che divide. Lo ami o lo odi. Anzi no, “odio” è una parola impropria. Lo ami o non lo leggi. Chi ha il palato fine, e un po’ di puzza sotto il naso, lo guarda con diffidenza, definendolo “pop”, rimproverandogli una certa furbizia: l’aver fatto della poesia un business. Come fosse una colpa poi. Lo scorso 7 agosto Arminio è stato ospite della rassegna “PrimaVera al Garibaldi”, a Lucera, con lo spettacolo “È stato un tempo il mondo”. L’ho raggiunto al telefono qualche ora prima dell’evento e abbiamo parlato un po’, toccando vari temi.

Bisaccia, provincia di Avellino, paese dove è nato e che non ha mai lasciato. Qual è il legame con la sua terra?

«Recentemente ho scritto un aforisma rimasto inedito: “Questo è il mio paese, questo è il mio paesaggio, questa non è la mia gente”. Sento una adesione all’altopiano, alle nuvole, alle piante, al grano. Le persone invece sono cambiate, il paesaggio umano della mia infanzia non è lo stesso di oggi. Lì c’è l’incrinatura. Trovo casa dove c’è dialogo, incontro. La visione identitaria per me si rifà alla gente».

Ha mai pensato di lasciarlo il paese?

«No, non ricordo di aver mai organizzato la fuga (sorride ndr)».

È stato un limite, in quello che è il suo lavoro, la scelta di rimanere in provincia rispetto al salto nella grande città?

«Non credo. Per quella che è la mia poetica possiamo vederlo come un elemento di coerenza. Non ho mai sentito di perdere qualcosa rimanendo qui. Ho sempre vissuto la grande città come un “luogo per andare a fare cose”. Non ho simpatia per il mondo urbano: un aggregato di macchine e palazzi che ha un prestigio superiore ai propri meriti (ride ndr)».

Come è arrivata la poesia nella sua vita?

«Scrivo poesia da quando ho 16 anni. Una risposta spontanea alle inquietudini adolescenziali. Oggi è un mestiere, ci vivo. Ma non è una cosa che ho mai rincorso. Che fare quando nasci in un piccolo paese, se non scrivere, esprimerti; farti conoscere attraverso le parole. Forse ho avuto il merito di continuare, mentre tanti altri si sono fermati».

“Per Franco Arminio la poesia è soprattutto pregare…”

«È qualcosa che è venuto fuori negli ultimi anni. Un collegamento laico tra scrittura e preghiera. Non fraintendermi, non c’è niente di “confessionale” in questo…»

Lei è religioso?

«Non lo so (sorride ndr). Mi interessa pensare a Dio, al trascendente. Ma non vado in chiesa, se mi stai chiedendo questo».

La poesia è un’operazione intima. Come riesce a coniugarla con un reading pubblico?

«“Poesia” è una parola solitaria, che deve però rivolgersi a tutti. Serve scrivere in solitudine. Ma dopo l’esilio c’è voglia di tornare a casa. Questo è la scrittura, tornare a casa, e trovare tanta gente ad accoglierti».

Scrivere è tornare a casa insomma…

«Esattamente»

Gli autori che ammirava da ragazzino?

«Sicuramente Giorgio Caproni, un maestro. Ma potrei nominarti tanti classici, Leopardi, Dante. Mi accompagnano ancora».

Contemporanei?

«Ne leggo tanti. Leggo quasi solo poesia, sono un poeta che legge».

Alfonso Guida?

«L’ho letto certo».

Ci si riconosce nella voglia di raccontare le radici?

«Facciamo percorsi diversi, abbiamo modi diversi di intendere la parola. Le vie della poesia poi sono infinite, è un errore pensare ud un angolo stretto. È molto più ampio di quanto si possa credere, composto dalle voci più disparate. Ovvio che ognuno si riconoscerà in quelle che sente più vicine».

Ha mai usato la poesia per far innamorare una donna?

«È successo tante volte, mi sembra inevitabile».

La poesia come arma di seduzione, quindi?

«Si certo».

Scrivere nasce da una ferita?

«Nasce dal tentativo di riparare una ferita, che si riapre continuamente».

Una ferita figlia dell’inquietudine?

«Siamo umani. Ognuno vive le proprie inquietudini…».

Quindi lei si sente inquieto? Mi sembra invece tanto sereno dalla voce…

«Sono vecchio (ride ndr). Mi fa piacere che noti una tranquillità nella mia voce, ma mi ritengo un inquieto di nell’indole».

Lei è rinomato per il legame tra i suoi versi e la terra. Ma l’amore come lo vive?

«L’amore si esprime in tante forme e aspetti: nel mio caso l’amore per il paesaggio, per gli animali. Ho una famiglia, vivo con loro e li amo. Ma anche della poesia sono innamorato, mi aiuta, mi sta vicina, soprattutto quando sto male».

Perchè quando si pronuncia il nome di Franco Arminio si tende a definirlo un poeta “pop”?

«Perchè i miei versi arrivano a tante persone. Capisco che chi usa questa definizione lo faccia in senso denigratorio, ma è sbagliato questo approccio. Poeta pop va bene, anche “non poeta” va bene. Ma se con la mia scrittura emoziono qualcuno se, come è capitato in passato, mi fermano dopo un reading per dirmi “la tua poesia mi ha cambiato la vita”, non conta la definizione che mi si vuole affibbiare. Questo lavoro di sminuimento non mi fa nessun effetto».

Le è capitato tante volte di sentirsi dire che i suoi versi hanno cambiato la vita di qualcuno?

«Tante. Anche se a volte tendiamo a dare più importanza ai commenti negativi. Invece avrei dovuto fare più attenzione a questi incontri, ricordarmi i nomi, le facce di queste persone. Se c’è qualcosa che mi rimprovero è di non essere stato abbastanza attento».

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Bari Cultura e Spettacoli

Altamura ne “La fanciulla degli ori”, Marinaro: «I miei romanzi tra cronaca e storia» – L’INTERVISTA

Un intreccio tra mito, leggenda, storia e giallo, percorrendo l’asse Milano Altamura. Il nuovo romanzo di Laura Marinaro “La fanciulla degli ori”, pubblicato con la casa editrice Mursia, questa volta si cala nel profondo della città che ha dato i natali alla scrittrice. Come ci ha abituato con il romanzo precedente “Maremoto a Varigotti”, si tratta di un intreccio tra vero e verosimile, in uno stile scrittorio fluido, attento ai particolari e pieno di sorprese. La protagonista è Caterina Ferrari, un’archeologa. Non a caso la scrittrice ha scelto per questa sua nuova eroina un lavoro un po’ diverso dal personaggio precedente. Non ha direttamente a che fare con il mondo della polizia, ma non ne è neanche completamente estranea, essendo nipote di Alina Ferrari, l’ex colonnello dei Carabinieri. Appena assunta come ricercatrice nel nuovo Museo delle Scienze Antropologiche di Milano, si trasferisce temporaneamente ad Altamura per la vendita di una casa di famiglia nel centro storico. Milano e Altamura incarnano i due amori di Caterina, Marco e Luca, due uomini tanto diversi da confondere la ragazza, un po’ come le due città in cui si muove. Nella cittadina famosa per il pane, Caterina si trova suo malgrado a fare una sensazionale scoperta archeologica, ma anche a dovere «indagare» su due omicidi legati in qualche modo al museo e all’antica maledizione seguita alla scoperta della “Fanciulla degli ori”.

Il secondo libro è ambientato nella sua città. Come mai ha scelto Altamura? Che ruolo ha la città per la trama?

«L’ho scelta perché lo spunto è arrivato proprio da La Fanciulla degli ori, una scoperta archeologica conservata nel Museo archeologico cittadino e dalla sua storia affascinante. La città è uno dei protagonisti, ha un ruolo importantissimo così come Milano, dove vive e lavora Caterina Ferrari la protagonista».

Un’archeologa, contrariamente alla protagonista di “Maremoto a Varigotti”. Cosa l’ha spinta a scegliere questo mestiere?

«Proprio lo spunto della fanciulla e poi lei è un’archeologa ma specializzata in antropologia forense, una delle scienze forensi più affascinanti che ho studiato e che si occupa di scheletri».

Chi è la fanciulla degli ori e come è venuta a conoscenza di questa leggenda?

«Dal Museo. i tratta di uno scheletro del II secolo dopo Cristo, contenuto in una tomba affrescata con un corredo di ori importante e bellissimo. La leggenda è una mia invenzione ma non si discosterebbe da storie di quell’epoca».

Quanto della sua esperienza crime c’è nei suoi romanzi? Come la aiuta a sviluppare le trame?

«L’esperienza c’è. Anche i giornalisti di nera ci sono sempre nei miei romanzi e poi ci sono le conoscenze delle tecniche d’indagine e delle scienze forensi».

Quando scrive un nuovo libro il finale è già presente nella sua idea o lo scopre strada facendo?

«C’è già subito. In genere si fa un canovaccio prima con la descrizione dei personaggi principali poi gli altri vengono man mano a sceglierti. Luoghi cibi e situazioni si sviluppano man mano che si narra. Sono i personaggi che entrano nel processo e mi aiutano a completare l’idea del finale».

Nel testo lei nomina Yara Gambirasio. Un caso del quale ha avuto esperienza in prima persona. Che collegamenti ha tracciato tra il suo personaggio e la ragazza di Brembate?

«Il collegamento è proprio riferito all’antropologia forense e al fatto che Cristina Cattaneo, l’anatomopatogoa più nota d’Italia che lavorò al caso, è la datrice di lavoro di Caterina ed è nel libro».

Da dove parte per costruire i tratti del serial killer?

«La realtà offre numerosi spunti. Le mie idee si sviluppano sempre su fatti veri. Sono i giornali e le cronache che mi ispirano. La vita vera e la Storia, come in questo caso, sono protagoniste. Non amo né il fantasy né la fantascienza o il soprannaturale. Le mie storie sono tutte verosimili, qualcosa che permetta l’immedesimazione del lettore, che si cala interamente nella vicenda e la sente vicina».

Mette mai qualcosa di personale nei sui romanzi?

«Si molto, non solo qualcosa di autobiografico, ma anchecaratteriale. Non sono fatti o situazioni, ma sicuramente lati del carattere, sentimenti di Caterina sono anche miei. Le mie protagoniste mi assomigliano sempre per qualche lato della loro personalità. Forse Alina era meno simile, ma qualche tormento o situazioni erano reali».

Ha già un altro romanzo nel cassetto? Sarà ambientato ancora in Puglia?

«Ho qualche idea. Sto pensando ad un’ambientazione in Brianza ma con qualche incursione in Puglia, magari al mare».

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Cultura e Spettacoli Lecce

Casarano, a Palese (Unirai) il premio Apulions: «Il legame con il territorio è sacro» – L’INTERVISTA

Se in Rai dopo decenni è caduto un muro, e si è rotto il monopolio sindacale è merito anche di un salentino doc. Francesco Palese infatti è il segretario del nuovo sindacato dei giornalisti Unirai – Figec Cisal. Lo incontro a Casarano dove il giornalista parlamentare di “Rainews24” ritira il premio “Apulions” dedicato ogni anno alle eccellenze del territorio.

Ti è stato consegnato il premio “Apulions 2024”. Che valore ha per te questo riconoscimento?

«Fa sempre piacere tornare a casa e rivivere tanti ricordi legati al mio passato. Bello rivedere tanti amici con cui si è condiviso un percorso. Il legame col territorio per me è sacro».

Perché nasce il sindacato “Unirai”?

«Unirai nasce per dare voce a tutti. A partire da quelle componenti che nel vecchio sindacato non erano messe nelle condizioni di esprimersi. Nasce dal malcontento dei più. Il pluralismo, anche in ambito sindacale, è un valore aggiunto. La creazione di un nuovo soggetto non può che far bene a tutti».

Che momento storico è quello attuale per la Rai? Da mesi assistiamo a tante polemiche su una presunta “TeleMeloni”…

«“TeleMeloni” è stata una bella invenzione, un’idea di marketing, da parte di chi ci ha costruito su una campagna di comunicazione. Mi riferisco ad alcuni gruppi editoriali ben noti, e a qualche partito politico. Le elezioni europee ci sono state. I cittadini si sono pronunciati. Adesso bisognerebbe mettere da parte gli slogan e pensare al futuro di questa grande azienda con oltre 12 mila dipendenti, ma anche con un debito di oltre mezzo miliardo di euro».

C’è stato con il governo Meloni un salto di qualità in quella che viene definita come “un’occupazione” della Rai?

«La legge che disciplina i meccanismi di elezione e nomina della governance è del 2015. Ma solo oggi qualcuno si scandalizza. C’è chi propone di passare alla precedente, mentre dall’Unione Europea arrivano indicazioni molto precise alle quali dovremo adeguarci. Mi limito solo a mettere in evidenza la strumentalità di molte critiche di questi mesi sulla Rai».

Proprio in queste ore si sta discutendo dell’elezione del nuovo Cda. Una corsa contro il tempo?

«La legge affida al parlamento l’elezione di quattro dei sette consiglieri, Ad e Presidente sono di nomina goverrnativa. Sul Presidente serve inoltre un passaggio in Vigilanza, mentre il settimo consigliere, quello che rappresenta i dipendenti, lo abbiamo eletto a maggio. Sono passati due mesi e l’auspicio di molti è non si vada oltre settembre».

Torniamo a Unirai. Qual è il bilancio di questi primi 7 mesi dalla nascita?

«Sono stati mesi di grande lavoro. Non è stato facile guadagnarsi lo spazio necessario per far sentire la nostra voce. Abbiamo incontrato grandi resistenze, a tutti i livelli. Resistenze che probabilmente continueranno e si faranno sempre più forti. Ma siamo pronti a tutte le sfide. Siamo soddisfatti del numero del primo blocco di iscritti, delle iniziative che abbiamo messo in campo e della risposta dei colleghi, nonostante ci sia stato più di qualche tentativo di demonizzare la nuova creatura etichettata in tutti i modi».

Ti riferisci a chi vi chiama “sindacato di destra”?

«Definire “di destra” un sindacato non vuol dire nulla. Se entro in una pizzeria non mi interessa sapere se il pizzaiolo è un comunista. Sono problemi suoi. Mi interessa sapere se la pizza è buona. Facciamo attività sindacale, non siamo un partito e non abbiamo bisogno di collocarci politicamente. Ogni giornalista Rai, come ogni cittadino, può avere le sue convinzioni politiche, ma non deve trasferirle nel suo lavoro, tantomeno nel sindacato. Chi ci etichetta come “sindacato di destra” lo fa per cercare di screditarci. Ma perde tempo».

Si sta aprendo nel tempo un dialogo con il vecchio sindacato Usigrai?

«Ultimamente hanno scritto una lettera piena di attacchi contro di noi. Non mi pare abbiano voglia di confrontarsi sui temi. Addirittura hanno detto che si batteranno in ogni sede per farci avere il minore spazio possibile. Sono ancora nella fase dell’elaborazione, ma arriverà anche quella dell’accettazione della nuova realtà. È stato un peccato però il mancato confronto di questi mesi, noi parliamo con tutti».

Cosa deve fare la Rai per diventare sempre di più servizio pubblico?

«Deve rappresentare tutte le sensibilità che esistono nella società, essendo presente maggiormente sui territori, anche quelli periferici».

Si può immaginare un potenziamento della Rai in Puglia?

«La sede Rai di Bari va valorizzata, come tutte le sedi regionali. Ma la Puglia ha una sua specificità. È un territorio molto esteso, di fatto una macroregione. Non a caso da molti anni c’è chi parla di “Regione Salento”. Andrebbero potenziate le sedi di Bari e Lecce».

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Bari Cultura e Spettacoli

Trent’anni dalla morte di Domenico Modugno, Lino Banfi: «Mimmo era immenso» – L’INTERVISTA

«Fu il primo a credere in me. Disse a mio padre che sarei diventato qualcuno». È una profonda amicizia quella che per anni ha legato Lino Banfi (all’anagrafe Pasquale Zagaria) e Domenico Modugno. I due, oltre alle radici pugliesi, condividevano l’amore per la musica e per la vita. L’attore e sceneggiatore, originario di Andria, tra aneddoti e ricordi emozionanti, ripercorre il profondo rapporto con il cantautore nel trentennale della sua morte.

Cosa ricorda del suo primo incontro con Domenico Modugno?

«Lui venne a vedere uno spettacolo della compagnia di varietà in cui ero all’epoca, parliamo di oltre 60 anni fa. Gli piacque molto e mi chiese se volessi entrare a fare parte di una compagnia con lui per 3-4 mesi. Riscuotemmo un successo incredibile. Io sul contratto avrei voluto scrivere che mi sarei esibito ovunque in Italia, meno che in Puglia… A Canosa, a Bari… non volevo mi vedessero i miei compaesani che dicevano a mio padre che ero “un morto di fame” per voler far parte di una compagnia di varietà. Che non avrei fatto nulla nella vita».

E cosa successe?

«Mimmo mi disse “no, devi andare nel tuo paese. Avrai successo”. Di lì diventammo molto amici. Volle che mio padre venisse a vederci al Teatro Petruzzelli e gli promise che sarei diventato famoso. Che sarebbero stati gli altri a togliersi il cappello quando passava. Instaurammo un rapporto fraterno che andava oltre il lavoro».

In cosa eravate simili e in cosa diversi?

«Come fai ad essere simile a qualcuno di così grande. Poi Modugno era un bell’uomo, non si potevano fare paragoni. E quando decideva di fare qualcosa, la faceva».

Oltre al talento fuori dal comune, cosa ha contribuito a rendere “grande” Domenico Modugno?

«Innanzitutto la sua “pugliesità”. Lui era molto pugliese come mentalità. Passava per siciliano, ma non lo era. Non lo so, questo era il suo carattere… sempre forte, sempre deciso. Ddiceva “questo lo dobbiamo fare, non ti preoccupare”. Era cordiale e altruista, immenso. Mimmo era immenso».

Quanto il rapporto con il mare ha influito nella sua vita?

«Lui era un grande nuotatore. Dopo che ebbe l’ictus andai a trovarlo a Lampedusa dove aveva una bellissima villa sul mare. All’epoca non riusciva a camminare bene, era ingrassato… disse che mi avrebbe insegnato a nuotare. “Ma a chi? Sei scemo” gli risposi. Io ho paura dell’acqua, lui era un delfino. La sua forza era proprio quella, quando gli chiedevo come facesse a nuotare così visto che a malapena riusciva a muovere le braccia e le gambe lui mi rispondeva: “È questa fottutissima vita che faccio”. Ce l’aveva con la vita perché aveva avuto questa malattia e non era più quello di prima. La sua forza era il mare».

Lei ha scritto una canzone per Domenico Modugno.

«Sì, scrissi una canzone che si chiamava proprio così: “Fottutissimi ricordi”. A lui piacque molto e gliela feci musicare da un chitarrista che era lì. “Fottutissimi ricordi/perché state sempre appresso a me”, lui non voleva averli questi ricordi. In quel periodo però aveva scritto un pezzo bellissimo che cantò con il figlio, si chiamava “Delfini”. E quindi non poteva fare un pezzo simile, che parlasse più o meno dello stesso argomento. Però disse che era molto bella. Anni dopo lo feci sentire anche a Franca, sua moglie, che gradì molto questo provino».

Un’ultima domanda. In cosa il “Mimmo” che conosceva lei era diverso dal Domenico Modugno artista?

«Il Mimmo che conoscevo io anche nella vita di tutti i giorni era sempre l’artista. Però era entusiasta di vivere, entusiasta di muoversi. Lui faceva tutto con un’attitudine positiva. I momenti negativi iniziarono con quella “fottutissima malattia”, come la chiamava lui».

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Brindisi Cultura e Spettacoli Persone Storie

“Aiutami a guardare”, Nunziante a Rosa Marina: «Io giornalista per caso» – L’INTERVISTA

Se non avesse fatto il giornalista televisivo sarebbe stato un insegnante di Lettere o di Storia dell’arte. Empatico, entusiasta, spontaneo e con un tocco di romanticismo; il tratto distintivo di Nando Nunziante, volto noto di Tgr Puglia, è il suo essere appassionato, per tutte le forme del sapere, dalla musica alla lettura, dall’arte ai film o allo sport, “perché la conoscenza rende liberi”. Non solo; un’energia e una carica vitale quasi uguale a quella che avvolge i bambini. Barese, classe ‘68 e una spigliatezza che traspare dallo schermo Tv. Venerdì 9, alle 19, il giornalista radiotelevisivo con la passione delle moto, presenterà il suo romanzo sulla spiaggia Rodos del Consorzio di Rosa Marina, uno dei luoghi del cuore dei suoi anni di gioventù.

Tra gli inizi da stagista e poi gli anni di professione, ne sono trascorsi ben 27. Più di cinque lustri vissuti nel mondo del giornalismo affrontando servizi di ogni genere; è ancora legato alla passione dell’insegnamento?

«Un’idea che non mi ha mai abbandonato. Da piccolo amavo scrivere e la maestra delle scuole elementari, all’Istituto Di Cagno Abbrescia, lì dove ho studiato fino al liceo classico, mi invogliava e mi spingeva a continuare su questa strada. Quell’insegnante che all’epoca tanto ha mi ha trasmesso l’ho poi rincontrata di recente, durante una mia presentazione alla Feltrinelli e ci siamo abbracciati sul filo di quella penna che non ha mai smesso di scrivere. Colgo l’occasione per raccontare che due anni fa, ed è accaduto anche altre volte e in altri luoghi, ho organizzato una festa a fini benefici proprio in quell’Istituto dei miei anni verdi. Il ricavato è stato poi devoluto ad associazioni varie ed è stata una grande emozione».

Torniamo alle lettere, le sarebbe piaciuto navigare nel mare suggestivo della parola e dell’immaginazione poi, come mai la laurea in Giurisprudenza?

«È vero, al principio volevo assecondare le mie attitudini e scegliere la Facoltà di Lettere o Psicologia ma mio padre, magistrato, mi consigliò e indicò il cammino che prevedeva più sbocchi lavorativi e io da figlio decisamente vivace ma ubbidiente lo ascoltai. Mi son sempre sentito un ragazzo fortunato, circondato dagli affetti familiari e ho un senso di profonda gratitudine. Successivamente i miei studi per le materie letterali, a Roma, sono stati quelli della passione vera»

Come è sbarcato in Rai?

«Per un caso, io non avevo mai pensato di fare il giornalista; ripeto, volevo insegnare all’Università o a scuola. Una mia amica di Roma mi segnalò un concorso in Rai a Perugia e mi convinse a tentare. Lo superai ed eccomi qui».

Soddisfatto? Una brillante carriera, un bel traguardo, come quello del ruolo di caposervizio al Tgr di Bari.

«Sono contento ma non sono un carrierista, amo invece, visto che sono un “ragazzo mai cresciuto”, coltivare le mie passioni e da persona curiosa, viaggiare e conoscere nuove realtà. Mi piace guardare al mondo con un principio di condivisione».

Da quel lontano stage alla BBC, nel 1999, quando raggiunse la Patagonia per un documentario ai primi servizi con la famosa giornalista Milena Gabanelli, quale vicenda è rimasta impressa nella sua mente?

«Diverse ma la differenza l’hanno fatta le rubriche sul sociale. Conoscere persone meno fortunate, raccontare le loro storie spesso piene di dignità e di voglia di rialzarsi è un qualcosa che non dimentico»

Tornando all’universo dell’immaginazione, deduciamo che abbia realizzato un sogno con il suo primo lavoro di penna “Aiutami a guardare” (Gelsorosso). Un romanzo quasi autobiografico dove la parola ha un potere evocativo.

«Si, sognavo di fare lo scrittore ma mi sembrava sempre troppo arduo. Ora è realtà»

E il significato di “Aiutami a guardare”?

«Abbiamo bisogno degli altri, sempre, riconoscendo la nostra finitezza e in un mondo che scorre velocemente c’è l’esigenza di guardare in profondità».

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