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I misteri del caso Bayesian

Non è una spy-story, è una tragedia. Eppure, mettendo in fila tutti gli accadimenti, ci sono molte cose fuori posto, molte coincidenze, molte negligenze; insomma, c’è troppo di tutto per essere un destino fatale. Andiamo con ordine: Bayesian è una barca a vela di 56 metri dei Cantieri Perini, di 473 tonnellate, con un albero di 75 metri e con una deriva mobile che può arrivare fino a 9,5 metri di profondità.

La proprietaria è la signora Angela Bacares, contitolare insieme al marito di un impero industriale e assicurativo. Il marito, non è un imprenditore qualsiasi, è Marck Linch, soprannominato il “Bill Gates d’Inghilterra”, è la principale mente della cyber-tecnology britannica e, forse, europea. Per festeggiare la sua assoluzione nel processo che lo ha visto imputato per una presunta frode nella vendita della sua società “Autonomy” alla Hewlett-Packard, per la fantasmagorica cifra di 11,7 miliardi di dollari, ha deciso di organizzare un viaggio a bordo di Bayesian, con gli amici che hanno avuto un ruolo nel processo e con alcuni suoi collaboratori. Hanno aderito all’invito: Chris Morvillo, che guidava lo staff di avvocati della difesa al processo e sua moglie; Ayla Ronald, anche lei avvocato che faceva parte del collegio di difesa; il presidente di Morgan Stanley, Jonathan Bloomer, che nel processo è stato il principale testimone della difesa e sua moglie; James Emsilie, stretto collaboratore di Linch, insieme alla moglie e alla figlia Sophie di un anno. E c’è anche Hannah, la figlia diciottenne di Mark Linch.

Avrebbe dovuto esserci anche Stephen Chamberlain, socio e coimputato insieme a Linch nel processo, ma ha preferito rimanere in Inghilterra.

Bayesian parte da Rotterdam intorno alla metà di luglio e fa rotta verso le Isole Eolie. Durante il tragitto, fa scalo in Normandia, in Portogallo a Gibilterra e arriva in Sicilia, nel porto di Milazzo, nella prima settimana di Agosto. Il 18 agosto Stephen Chamberlain, sta facendo jogging nelle tranquille campagne di Cambridge, mentre attraversa una strada, viene investito da un auto e muore. Anche Stephen Chamberlain non è uno qualsiasi; insieme a Mark Linch, nel 2013 fonda “Darktrace”, una società di cyber-sicurezza che utilizza l’intelligenza artificiale per rilevare gli attacchi informatici. In “Darktrace” entrano ex funzionari dei servizi segreti britannici e israeliani fino ad arrivare al coinvolgimento di sir Jonathan Evans, ex direttore generale dei servizi segreti britannici M15, che entra a far parte del comitato consultivo. “Darktrace” nel 2021 viene quotata in borsa e nel 2022 acquisisce per 50 milioni di sterline la società olandese Cybersprint, specializzata nella gestione di “superfici d’attacco”, aumentando capacità e prestigio internazionale.

Pare che, saputo della morte dell’amico Chamberlain, Mark Linch abbia chiesto all’equipaggio di fare rotta su Palermo, forse per un rientro anticipato in Inghilterra. E, arriviamo alla tragedia, in quello che in molti raccontano come fatalità. Sta di fatto che Bayesian – siamo nella serata di Domenica 18 – molla l’ancora nella rada di Porticello, a poche miglia dal porto sicuro di Palermo. Nella stessa rada è all’ancora un’altra imbarcazione che batte bandiera olandese. C’è un’allerta meteo, tant’è che nessun peschereccio lascia il porto di Porticello in quella notte. La tromba marina arriva alle 3.50; chi sa di mare, sa benissimo che i venti di tempesta si annunciano con un certo anticipo, l’acqua comincia a bollire sino ad arrivare al culmine, dove le onde si alzano a dismisura. Mentre la barca olandese appronta le procedure di emergenza e cioè, salpa l’ancora, sigilla l’imbarcazione e accende i motori, Bayesian rimane incomprensibilmente ancorato, con i motori spenti e, assurdo, con persone in cabina. Viene da pensare che nessuna delle procedure di emergenza sia stata messa in atto. Dalle 3.50 alle 4.06, Bayesian spacca l’ancora, scarroccia per 358 metri e affonda.

Dalla ricognizione del relitto emergono altre sinistre verità: la barca non presenta cedimenti strutturali, l’albero è integro e, assurdo ma vero, la deriva mobile che, se calata per la sua intera profondità avrebbe contribuito a contrastare i forti venti, stava calata a soli 3,5 metri di profondità. In questi venti di tempesta, il comandante della barca olandese, mette in acqua un gommone e salva 15 pesone; dieci sono dell’equipaggio.

Sono curioso di sapere cosa hanno fatto nei venti minuti prima e nei sedici della buriana. Nel frattempo, Recaldo Thomas, il cuoco di bordo, insieme a Linch e alla figlia Hannan, a Bloomer e alla moglie, a Morvillo e alla moglie, sono morti. Se questa è una fatalità io sono Napoleone Bonaparte.

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L’agosto difficile dei 5 stelle

Gli account social di Giuseppe Conte hanno perso in questo mese circa 7mila follower. A pagare il dazio più pesante è stato il profilo Instagram che è stato abbandonato da 3.227 follower e mancano ancora una decina di giorni alla fine di agosto. In verità, anche a Beppe Grillo non è andata proprio bene con altrettanti defollowing.

Comunque, a voler essere leggermente superstiziosi, attitudine in politica da sempre molto diffusa, agosto non è proprio un mese fortunato per Giuseppe Conte e per il MoVimento 5 Stelle. Nel 2018 ci fu il tragico crollo del ponte Morandi a Genova che causò non poche difficoltà al neonato esecutivo giallo-verde. L’anno successivo poi, nel 2019, il leader leghista Matteo Salvini, fino ad allora solido alleato, decise di aprire una improvvisa crisi “balneare” che portò alla conclusione anticipata del primo governo guidato da Giuseppe Conte e alla nascita di una nuova maggioranza con l’ingresso del Partito democratico, Articolo Uno e Italia Viva.

Così, la maledizione agostana si è ripresentata con tutto il suo carico di tensioni e fibrillazioni varie anche nel 2022. In quest’ultima occasione fu l’enfant prodige Luigi Di Maio a rinnegare l’ideologia grillina e trascinarsi in Impegno Civico, lista di scopo nata a sostegno dell’alleanza di centrosinistra, una numerosa pattuglia parlamentari grillini.

Questa volta, invece, a rovinare le tre settimane di vacanza che Giuseppe Conte solitamente trascorre nella sua Puglia, ci ha pensato direttamente e senza mezzi termini Beppe Grillo. Il fondatore e garante del M5S ha chiarito che «il simbolo, il nostro nome e la regola del secondo mandato, i tre nostri pilastri, non sono in nessun modo negoziabili, e non possono essere modificati a piacimento. Sono il cuore pulsante del MoVimento 5 Stelle, il nostro faro nella tempesta. Cambiarli significherebbe tradire la fiducia di chi ha creduto in noi, di chi ha lottato con noi, di chi ha visto in noi l’unica speranza di cambiamento reale».

La risposta di Conte, ovviamente, non si è fatta attendere rimettendo nelle mani degli iscritti la scelta delle nuove regole, nome compreso. Lo scontro a distanza tra i due leader pentastellati però ha eroso, per ora solo di qualche migliaio, la base dei rispettivi account social. Infatti, Giuseppe Conte dal primo al 22 agosto, ha lasciato sul selciato social ben 3.078 follower anche su Facebook che si sommano a quelli persi su Instagram e TikTok. Altrettanto, l’account X di Beppe Grillo è “dimagrito” di 2.174 follower, mentre la pagina Facebook si è assottigliata di altri 1.206 unità. Per ora, va detto, si tratta ancora di poca cosa rispetto ai milioni di follower, ma rimane significativo il fatto che questo calo sia conciso con un nuovo momento di tensione che evidentemente lascia disorientata la base dei militanti e dei follower.

Momenti di tensione anche a Bari, dove la nomina di Raffaele Diomede non è andata giù ai due consiglieri comunali eletti Italo Carelli e Antonello Delle Fontane che, in aperta polemica col segretario provinciale Raimondo Innamorato, hanno deciso di uscire dalla maggioranza del sindaco Vito Leccese: una vicenda che rischia di aprire una frattura insanabile all’interno del M5S anche a livello locale.

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Opportunità per i piccoli comuni

Sono 172 i milioni di euro a disposizione dei Piccoli Comuni italiani per riqualificare e mettere in sicurezza i propri territori sono sicuramente una buona notizia e un segnale concreto, e per certi versi straordinario, di attenzione nei confronti dei paesi con meno abitanti. È normale, quindi, che il Ministro Musumeci saluti con soddisfazione la pubblicazione della graduatoria con i progetti ammissibili a finanziamento. Così come è assolutamente legittimo il compiacimento delle amministrazioni locali che sono riuscite a tagliare il traguardo. I numeri, tuttavia, dicono anche altro.

Su 2.638 istanze presentate e 1.179 progetti ammissibili, gli interventi finanziati sono solo 144. Senza ulteriori fondi, quindi, rischia di essere vanificata la grande partecipazione e l’enorme sforzo progettuale prodotto da centinaia di Piccoli Comuni.

Il tema non sfugge neanche al ministro che difatti si è pubblicamente impegnato “a trovare nuove somme al fine di venire incontro alle esigenze del maggior numero possibile di Comunità”.

Il vero salto di qualità, però, sarebbe un altro. Per i piccoli comuni occorre fare di più e diversamente. Mettere le poche risorse disponibili a bando è certamente una scelta politicamente più facile, ma significa anche innescare competizioni tra territori diversissimi chiamati a gareggiare, anche molto velocemente, in un “uno contro tutti” senza nessuna visione d’insieme e con il solo obiettivo di provare a vincere quella che somiglia sempre di più ad una specie di lotteria. La logica dei bandi, già vista con molti fondi PNRR e con il pessimo “Bando Borghi” del Ministro Franceschini, sta generando un meccanismo contrario a quello auspicato: più le procedure sono veloci, competitive e concorrenziali, maggiore è il rischio di penalizzare i Comuni più piccoli, più fragili, con più difficoltà (economiche, di personale e dunque progettuali) e, alla fine, di escludere proprio quelli che avrebbero più bisogno di risorse e interventi straordinari.

È evidente che i bandi destinati ai singoli Piccoli Comuni non sono più lo strumento giusto per risolvere alla radice i problemi delle aree marginali del Paese.

AI Piccoli Comuni, al contrario, serve più che mai una Politica (nazionale e regionale) che “veda” i luoghi, che li sappia “leggere”, che possa coglierne criticità e opportunità per poter intervenire a ragion veduta e dove c’è più bisogno. Una Politica, insomma, più interessata ad innescare processi generativi che a fare spesa con interventi quasi mai risolutivi e spesso anche casuali. È necessario, in altre parole, ritrovare spazi di confronto e di lavoro comune, luoghi di programmazione strategica, momenti di coesione e di pianificazione condivisa, magari tra ambiti territoriali più ampi, per fare scelte più efficaci, per superare la logica dei Campanili e, perché no, recuperare lo spirito della Strategia nazionale per le Aree Interne.

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Le regole che servono al turismo

Siamo lontani dai tempi del Grand Tour, quando pochi aristocratici e intellettuali d’Oltralpe intraprendevano lunghi viaggi in Italia, esaltandosi alla vista delle vestigia dell’antichità e godendo di paesaggi incontaminati. Dopo tre secoli i colti viaggiatori solitari sono stati sostituiti da moltitudini crescenti di turisti che visitano il nostro Paese più o meno alla ricerca delle stesse emozioni.

Nel 1990 varcavano la frontiera italiana circa 60 milioni di turisti stranieri, nel 2023 la cifra è più che raddoppiata con circa 135 milioni di turisti in entrata. Dopo la crisi pandemica, il 2023 è stato un anno da record, superando i dati del 2019, con +3,0 milioni di arrivi (+2,3%) e +14,5 milioni di presenze (+3,3%). L’incremento è anche più netto rispetto al 2022 (+ 13,4% di arrivi e + 9,5% di presenze). Il surplus della bilancia dei pagamenti turistica si attesta a 20,1 miliardi di euro, pari all’1% del pil (da 0,9 dell’anno precedente), annullando le perdite causate dal lockdown e confermandosi al di sopra della media dell’area euro.

Diversi fattori hanno contribuito allo sviluppo dei flussi turistici: in primo luogo l’espansione delle compagnie di trasporto aereo low cost e la disponibilità di nuove rotte, lo sviluppo delle tecnologie digitali (attraverso le piattaforme online, come Airbnb, i turisti possono comparare i prezzi, contattare direttamente soggetti fornitori, visionare le opinioni lasciate da altri utenti), l’adozione di politiche meno rigide per la regolamentazione dei visti di ingresso, la semplificazione dei regolamenti sugli alloggi e lo sviluppo della sharing economy.

Tutto bene si direbbe e invece l’aumento dei flussi turistici oltre un certo limite, causa effetti negativi, sia economici che sociali, creando significative distorsioni. L’offerta di servizi turistici ha, infatti, un notevole impatto con le condizioni di vita della popolazione residente: da un lato genera reddito per chi offre i servizi, dall’altro produce sia effetti di cogestione danneggiando l’ambiente fisico fino a compromettere la stessa soddisfazione dei viaggiatori, sia fenomeni speculativi che modificano l’equilibrio sociale.

L’esperienza di grandi mete turistiche, come Barcellona o Venezia, ci mostra che prima o poi, l’overtourism genera una inconciliabile opposizione di interessi tra la parte di popolazione locale che trae reddito dai servizi turistici, e la parte di popolazione che è esclusa dai diretti vantaggi economici subendo gli effetti negativi. Un conflitto che è conseguenza delle politiche liberiste adottate in questo settore da autorità locali e governi nazionali, nella convinzione che i flussi turistici possano rappresentare un motore di sviluppo economico distribuendo benefici a tutta la popolazione residente. E invece ad un’analisi più attenta i danni causati dall’assenza di regolamentazione possono essere superiori ai benefici ottenuti in termini di reddito. In primo luogo, la presenza crescente di turisti genera fenomeni inflazionistici locali, riducendo la disponibilità di risorse per i residenti e diminuendo il loro potere d’acquisto. Aree cittadine precedentemente residenziali sono “turistificate” con l’espulsione dei residenti per far posto ad alloggi per turisti. Il mercato immobiliare risulta drogato con continui rialzi dei prezzi che danno luogo a bolle speculative.

Il tessuto commerciale locale è stravolto per la scomparsa dei negozi di vicinato sostituiti da brand e catene commerciali multinazionali. L’affollamento genera poi effetti negativi in termini di impatto ambientale, di inquinamento e di gestione del ciclo dei rifiuti. Gran parte delle politiche urbanistiche è rivolta ad infrastrutture destinate a sostenere crescenti flussi turistici, ignorando le esigenze della comunità locale. La concentrazione di investimenti nei centri turistici genera degrado e abbandono nelle periferie. Infine certi tipi di turismo favoriscono lo sviluppo delle attività criminali connesse alla prostituzione, al consumo di alcool o di sostanze stupefacenti.

L’elenco potrebbe continuare, ma l’attento lettore avrà sicuramente inteso che la fortuna di una località baciata dall’interesse turistico può essere solo apparente ed effimera se non è rigidamente regolata l’offerta di servizi. Il modello liberista di sviluppo basato sul turismo non è molto diverso dallo sfruttamento di risorse minerarie, per le inevitabili ripercussioni sull’ambiente e sulla vita dei residenti. E come la monoculture estrattiva, il turismo non regolamentato crea diseguaglianze sociali e impoverisce il territorio esaurendo le risorse locali.

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Sui femminicidi qualcosa sta cambiando

A meno di un anno dall’approvazione della legge 168 del 2023, che ha introdotto importanti modifiche ai codici penale, di procedura penale, delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione per migliorare l’efficacia delle politiche di contrasto alla violenza sulle donne, è opportuno esaminare gli effetti di queste misure.

Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento della pubblica sicurezza-Direzione centrale della polizia criminale, nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 30 giugno 2024, sono stati registrati 141 omicidi con 49 vittime donne. Di queste, 25 sono state uccise dal partner o dall’ex partner. Questo dato rappresenta un calo rispetto allo stesso periodo del 2023, quando si registrarono 176 omicidi, con 62 vittime donne.

Il femminicidio, ossia l’omicidio di una donna “in quanto donna”, spesso matura in ambito familiare o all’interno di relazioni sentimentali instabili. Il termine femminicidio è entrato nel lessico comune negli anni ’90 per qualificare questi crimini di genere.

L’Italia ha iniziato a rafforzare la propria legislazione sulla violenza contro le donne con la ratifica della Convenzione di Istanbul, avvenuta con la legge 77 del 2013. Da allora, sono stati fatti diversi interventi per creare una strategia integrata di contrasto alla violenza, in linea con quanto previsto dalla Convenzione.

Uno dei provvedimenti più incisivi è stata la legge 69 del 2019, nota come “codice rosso”, che ha potenziato le tutele processuali per le vittime di reati violenti, in particolare per i crimini di violenza sessuale e domestica. La legge ha introdotto nuovi reati nel codice penale, tra cui la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e la costrizione o induzione al matrimonio. Inoltre, sono state inasprite le pene per reati comuni contro le donne, come maltrattamenti, stalking e violenza sessuale.

Secondo un report Istat pubblicato a luglio 2024, le molestie sessuali sul lavoro continuano a rappresentare un grave problema. Nel biennio 2022-2023, il 13,5% delle donne tra i 15 e i 70 anni che lavorano o hanno lavorato ha subito molestie a sfondo sessuale. Le più giovani (15-24 anni) risultano essere le più esposte, con una percentuale del 21,2%. Anche gli uomini non sono immuni: il 2,4% degli uomini tra i 15 e i 70 anni ha dichiarato di aver subito molestie sul lavoro. Le forme di molestie più comuni comprendono sguardi offensivi, insulti, proposte indecenti e, nei casi più gravi, molestie fisiche. Negli ultimi tre anni, il 4,2% delle donne e l’1% degli uomini ha dichiarato di aver subito molestie sul lavoro.

Ma le molestie sessuali si verificano anche al di fuori del contesto lavorativo. Nello stesso periodo, il 6,4% delle donne e il 2,7% degli uomini tra i 14 e i 70 anni sono stati vittime di molestie. Più della metà di queste molestie avviene tramite tecnologia, come email, chat o social media.

Il rischio di subire una molestia sul lavoro aumenta nelle città metropolitane, dove il 17,1% delle donne e il 4,3% degli uomini ne sono vittime. Nei piccoli comuni (da 2.000 a 10.000 abitanti) le percentuali scendono rispettivamente al 10,3% per le donne e al 2,2% per gli uomini. Il Nord-Est risulta essere l’area con il minor rischio con percentuali del 9,7% per le donne e dell’1,7% per gli uomini. Il Nord-Ovest è la ripartizione geografica che presenta i dati peggiori, con il 14,9% delle donne e il 2,5% degli uomini che hanno subito molestie. Il Sud sembra essere un’isola felice visto essendo fra le ripartizioni geografiche a più basso rischio con una percentuale di molestie dichiarate del 14,1% per le donne e del 2,2% per gli uomini.

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Burocrazia, rischio duplicati

L’autonomia differenziata, così come è stata concepita nella recente riforma, presenta numerose criticità che richiedono una riflessione e una revisione profonda. Sebbene l’autonomia possa rappresentare un’evoluzione naturale del nostro sistema amministrativo, l’implementazione prevista rischia di aumentare le disuguaglianze tra le regioni e di generare costi aggiuntivi per i cittadini.

Uno dei problemi principali risiede nella possibilità di una duplicazione delle strutture amministrative, che potrebbe comportare un aumento dei costi anziché una loro riduzione. Questo rischio è particolarmente evidente nelle funzioni che lo Stato potrebbe dover mantenere, portando così a una moltiplicazione delle spese per la gestione pubblica. La maggioranza politica, con in testa la Lega, sostiene che la riforma non comporterà un aumento dei costi, ma le preoccupazioni sollevate indicano che potremmo assistere a una duplicazione delle strutture amministrative e, di conseguenza, a un incremento delle spese.

Attualmente, il sistema tributario italiano è fondato sulla progressività fiscale e sulla redistribuzione della ricchezza a livello nazionale. L’autonomia differenziata, però, potrebbe frammentare questo principio, provocando disparità nel finanziamento dei servizi pubblici tra le diverse regioni. Tale frammentazione potrebbe accentuare le differenze economiche e sociali tra le aree più ricche e quelle più povere del Paese.

In questo contesto, si inseriscono anche le recenti dinamiche fiscali, come la costante crescita dei contribuenti forfettari e l’introduzione della Flat Tax sul reddito incrementale per i contribuenti che aderisco al nuovo accordo con il fisco. Questi strumenti, pur avendo l’obiettivo di semplificare e ridurre il carico fiscale per alcune categorie di contribuenti, sottraggono entrate ai comuni e alle regioni. La Flat Tax, infatti, è un’imposta sostitutiva che rimpiazza anche le addizionali comunali e regionali, riducendo così le risorse a disposizione degli enti locali per finanziare i servizi pubblici. Il concordato preventivo biennale, che accompagna la Flat Tax, contribuisce ulteriormente a questa erosione delle entrate, minando la capacità dei comuni e delle regioni di garantire servizi equi e di qualità.

La gestione della sanità a livello regionale ha già mostrato evidenti limiti, soprattutto nel Sud, dove le disuguaglianze nell’accesso e nella qualità dei servizi sanitari sono più marcate. L’ulteriore regionalizzazione della sanità rischia di amplificare queste disuguaglianze. Già oggi, le differenze tra le regioni nel sistema sanitario sono significative e peggiorare ulteriormente questo scenario sarebbe inaccettabile.

Analogamente, l’istruzione è un settore che – a mio parere – deve rimanere centralizzato per garantire un’uguaglianza di opportunità educativa su tutto il territorio nazionale. La differenziazione delle competenze educative potrebbe portare a sistemi scolastici regionali di qualità variabile, creando ulteriori disuguaglianze socioeconomiche. La frammentazione del sistema educativo potrebbe compromettere la coesione nazionale e l’equità sociale.

Una possibile soluzione potrebbe essere il rafforzamento delle competenze dei comuni e delle province storiche, che sono gli enti di prossimità più vicini ai cittadini. Questi enti potrebbero gestire in maniera più efficace e diretta le risorse e le competenze, rispondendo meglio alle esigenze locali. Eliminare i corpi intermedi come le regioni, che hanno spesso fallito nella gestione delle risorse, potrebbe contribuire a una maggiore efficienza e trasparenza amministrativa.

La mobilitazione per il referendum abrogativo della legge sull’autonomia differenziata evidenzia quanto sia sentito e controverso questo tema. In pochi giorni, è stato raggiunto l’obiettivo delle 500mila firme necessarie per proporre il quesito referendario, grazie all’impegno di partiti, forze sociali e associazioni. Questo evento rappresenta un momento significativo per la democrazia italiana, dimostrando che la popolazione è presente e attiva. Quando la politica si fa sentire ed è vicina ai problemi della gente, la partecipazione elettorale diventa tangibile. È un bellissimo momento di democrazia che tanto manca al nostro paese, un segnale potente di partecipazione popolare contro una riforma considerata divisiva e pericolosa.

L’autonomia differenziata, per essere veramente efficace e giusta, dev’essere ripensata con una visione che parta dai territori, dando maggiori poteri ai comuni e alle province, eliminando le inefficienze create dalle regioni, e garantendo un’equa distribuzione delle risorse a livello nazionale. L’Italia ha bisogno di una nuova visione di paese, unita nella diversità, ma equa e giusta per tutti.

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La coesione sociale che non c’è

La desertificazione demografica o denatalità il tema dei temi di questo tempo nella dimensione europea. La denatalità è una questione complessa di questo tempo e dei mutamenti economici e sociali di una società in continuo movimento. Il cambio della radice culturale della “famiglia” cosiddetta tradizionale, un sentimento della maternità molto affievolito, la corsa alla indipendenza economica e alla carriera un “freno” potente e prepotente alle nascite.

Un tema che non si risolve burocraticamente o con leggi di puro incentivo economico che pur sono importanti. La spoliazione dei servizi primari, l’idea del costo/beneficio, la logica perversa dei numeri in questi anni ha contribuito ad allargare la forbice delle nuove nascite dentro i confini nazionali ed europei. La storica distinzione aree interne aree costiere che attraversa l’Europa ed in particolare le aree meridionali.

Sul tema studiosi come Giustino Fortunato, Guido D’Orso solo per citare qualcuno hanno scritto pagine memorabili. Il Pnrr con un investimento a debito di oltre 200 miliardi di euro doveva essere l’occasione per provare ad invertire culturalmente, socialmente , politicamente la tendenza alla desertificazione demografica. I due pilastri del Pnrr, “coesione sociale” e riequilibrio territoriale” sono stati alla prova dei fatti letteralmente offesi e umiliati. Il Pnrr doveva intervenire soprattutto nella aree di maggiore disoccupazione giovanile, desertificazione demografica, assenza di servizi primari e investimenti nel settore della sanità pubblica e scuola pubblica. Il disastro e lo spreco del Pnrr è sotto gli occhi di tutti e sarà lavoro certo per le Procure nei prossimi anni.

Ancora una volta le classi dirigenti locali hanno fallito la loro mission perché non hanno una vision strategica. Le Regioni del Sud impegnate unicamente nella spesa per la spesa senza avere una “visione d’insieme” del nostro Mezzogiorno europeo nel Mediterraneo. Le nuove generazioni meridionali pagano tutto questo e sempre di più sognano il loro futuro altrove. Provo a dare dei numeri per chiarire la drammaticità del fenomeno: per la Regione Campania si prevede che la tendenza alla diminuzione mostrata dalla popolazione nel corso dell’ultimo decennio continuerà nel prossimi mezzo secolo, concentrandosi nelle fasce di età più giovani. Il fenomeno assumerà la massima intensità in Campania e nelle altre regioni del Mezzogiorno dove nasceranno sempre meno figli e continueranno i flussi migratori in uscita. Secondo le previsioni dell’Istat, l’Italia avrà 47.455.455 abitanti nel 2070 (11 milioni in meno rispetto al 2021). Le nascite si ridurranno dalle circa 400mila del 2021 a poco più di 360mila nel 2070. La perdita della popolazione risulterà rilevante nella sua componente più giovane (fino a 14 anni di età), proprio quella che costituisce la fonte generatrice delle future nascite. Il Mezzogiorno tra le fine del 2021 e il 2070 dovrebbe perdere 6.395.035 dei suoi 19.828.112 residenti. Si profila davanti a noi una società gerontocratica, piegata sugli egoismi e per nulla attenta al domani.

Una possibile via d’uscita potrebbe essere una diversa legislazione per le aree interne. Non è possibile avere un sistema di regole uniche per territori molto diversi con problematiche complesse. La sanità pubblica non può rispondere a logiche di numeri. La scuola non può dipendere dal numero degli alunni. Viabilità, rete veloce, ruralità intelligente e turismo devono avere un percorso legislativo diverso dalle grandi aree metropolitane. Il Comune di Rocchetta Sant’Antonio 1700 abitanti ha gli stessi adempimenti burocratici in materia di bilancio del Comune di Roma o di Milano. Tutto questo non è più sostenibile. Fermo restando che il tema vero è sociologico e antropologico: le società ricche e opulente come quelle europee hanno tracciato da tempo il loro triste destino e non si vedono all’orizzonte politica mondiale in grado di indicare una strada e alimentare un sogno.

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Marketing sì ma di qualità per il turismo

Il dibattito sul presunto calo turistico in Puglia, particolarmente nel Gargano, richiede un’analisi più approfondita e obiettiva.

Attribuire le difficoltà del settore a una mera “carenza di marketing comunicativo” è una semplificazione che non coglie la complessità della situazione.

Innanzitutto, è prematuro trarre conclusioni definitive su una stagione turistica ancora in corso. I dati preliminari di giugno, che mostrano un incremento delle presenze, suggeriscono che valutazioni affrettate possono essere fuorvianti. Il nodo cruciale non è la quantità di marketing, ma la sua qualità e pertinenza. Da anni, consistenti risorse derivanti dalla tassa di soggiorno – che ammonta a 2 euro per persona al giorno – vengono impiegate in modo discutibile. Questa tassa, pensata per migliorare l’offerta turistica e i servizi locali, sembra non aver prodotto i benefici tangibili attesi per il territorio garganico.

Un’analisi dettagliata dell’utilizzo di questi fondi rivela diverse criticità:1. Scarsa trasparenza nella rendicontazione delle spese. 2. Investimenti in progetti di marketing generico anziché in miglioramenti infrastrutturali concreti. 3. Finanziamento di consulenze esterne costose con risultati discutibili.4. Mancanza di investimenti significativi nella formazione degli operatori locali. L’approccio di affidarsi a presunti “guru” del marketing territoriale provenienti dall’estero si è rivelato particolarmente problematico.

Questa scelta non solo ignora le competenze locali e nazionali, ma porta anche all’implementazione di strategie spesso disconnesse dalle reali esigenze e peculiarità del Gargano.

È paradossale che, nonostante la presenza di professionisti locali con esperienza riconosciuta nel marketing territoriale, si continui a cercare soluzioni oltre confine.

I consulenti stranieri, per quanto possano essere esperti nel loro campo, mancano inevitabilmente della profonda conoscenza del territorio, della sua cultura e delle sue dinamiche socio-economiche che solo gli esperti locali possiedono.

Questa mancanza di connessione con il tessuto locale si traduce spesso in strategie generiche, poco efficaci e talvolta controproducenti.

Il persistere di problemi come la destagionalizzazione e la valorizzazione delle aree interne, nonostante anni di consulenze e progetti, dimostra che il vero problema non è la quantità di marketing, ma la sua qualità e rilevanza per il territorio.

È fondamentale ricordare che il successo turistico di molte destinazioni italiane non è il frutto di recenti campagne di marketing, ma il risultato di un patrimonio storico, culturale e naturale unico.

Il Gargano, con le sue risorse straordinarie, non fa eccezione e potrebbe attrarre visitatori tutto l’anno se valorizzato correttamente.

Per affrontare queste sfide, è necessario un approccio integrato e sostenibile al turismo che includa:

  • Una collaborazione più stretta tra operatori locali, istituzioni ed esperti del territorio.
  • Un utilizzo più efficiente e trasparente della tassa di soggiorno, con investimenti mirati al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi.
  • Lo sviluppo di strategie di marketing basate sulle peculiarità uniche del Gargano, elaborate da professionisti che conoscono profondamente il territorio.
  • Un focus sulla qualità dell’esperienza turistica, investendo nella formazione degli operatori e nel miglioramento dei servizi.
  • La promozione di un turismo sostenibile che valorizzi non solo le coste, ma anche l’entroterra e le tradizioni locali.

In conclusione, attribuire le difficoltà del settore turistico nel Gargano a una semplice “carenza di marketing” o cercare soluzioni da consulenti stranieri è un approccio miope.

La vera sfida consiste nel ripensare completamente l’approccio al turismo, valorizzando le risorse e le competenze locali, utilizzando in modo oculato i fondi della tassa di soggiorno e sviluppando strategie che riflettano autenticamente l’identità e le potenzialità del territorio.

Solo attraverso un impegno collettivo, una visione a lungo termine e un’attenzione particolare alle specificità locali si potrà costruire un futuro turistico sostenibile e prospero per il Gargano e per l’intero territorio della Puglia.

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    I timori per mercati ed economia

    I timori relativi all’aumento del rischio di attentati, acuiti dalla proclamazione di Hamas di un “giorno di rabbia furiosa” in concomitanza con la sepoltura del suo leader Ismail Haniyeh in Qatar, si aggiungono al peggioramento della recessione globale, accentuata dai recenti dati negativi provenienti dal mercato del lavoro statunitense. Questo ha provocato un vero e proprio venerdì nero sui mercati finanziari internazionali. A Wall Street, il colosso dei chip Intel ha registrato una delle peggiori performance della giornata, mentre Amazon ha deluso gli investitori con una guidance al ribasso per il prossimo trimestre, aggravando ulteriormente il sentiment negativo. Le Borse europee, trascinate al ribasso dal crollo del settore tecnologico, hanno subito forti perdite. In particolare, a Milano, il Ftse Mib ha chiuso la giornata in calo del 2,5%, scendendo a quota 32.000 punti, il livello più basso registrato da febbraio. Gli investitori italiani si chiedono se si tratta di una crisi momentanea dopo un periodo di crescita della borsa italiana o se siamo di fronte a una inversione di tendenza. Per rispondere a questa domanda, diamo uno sguardo ai dati Istat sull’andamento dell’economia italiana.

    Il dollaro ha toccato il livello più basso degli ultimi quattro mesi, in vista di un possibile taglio dei tassi da parte della Federal Reserve previsto per settembre. Questa svalutazione della moneta statunitense riflette le crescenti incertezze riguardo alla stabilità economica degli Stati Uniti.

    In Europa, la situazione non è meno preoccupante. Il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, lo spread, è salito verso i 150 punti base. Questo aumento indica un maggiore rischio percepito dagli investitori nei confronti dei titoli italiani, aggravato dalle incertezze politiche e dalle tensioni geopolitiche in Medio Oriente. Nonostante il quadro internazionale preoccupante, i dati sul mercato del lavoro italiano mostrano segnali positivi. A giugno 2024, il numero di occupati è aumentato dello 0,1% rispetto al mese precedente, pari a 25mila unità. Questo incremento è stato trainato dagli uomini, dai dipendenti permanenti, dagli autonomi, dai 25-34enni e dagli ultra 50enni. Si registra una diminuzione dell’occupazione tra le donne, i dipendenti a termine, i giovani tra i 15-24 anni e la fascia dei 35-49enni. Il tasso di occupazione è salito al 62,2%, mentre il tasso di disoccupazione è aumentato al 7,0%. Il numero di persone in cerca di lavoro è cresciuto dell’1,3%, pari a 23mila unità. Nonostante questi aumenti, il numero di inattivi è diminuito dello 0,3%, pari a 41mila unità.

    A giugno 2024, l’indice destagionalizzato della produzione industriale italiana ha registrato un incremento dello 0,5% rispetto a maggio. Tuttavia, su base trimestrale, il livello della produzione è calato dello 0,8% rispetto ai tre mesi precedenti. I beni strumentali hanno mostrato un aumento del 2,0%, mentre i beni di consumo e l’energia hanno registrato flessioni rispettivamente dello 0,3% e dell’1,4%. In termini tendenziali, l’indice complessivo ha segnato una diminuzione del 2,6% rispetto a giugno 2023. I settori che hanno registrato gli incrementi maggiori sono stati la fabbricazione di prodotti chimici (+3,6%), le industrie alimentari, bevande e tabacco (+3,1%) e l’attività estrattiva (+2,7%). Al contrario, le flessioni più ampie si sono osservate nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-13,0%), nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-10,0%) e nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-7,8%). Secondo le stime preliminari, nel mese di luglio 2024 l’indice nazionale dei prezzi al consumo è aumentato dello 0,5% su base mensile e dell’1,3% su base annua. Questa risalita dell’inflazione è stata determinata dall’aumento dei prezzi dei beni energetici regolamentati (+11,3%) e dall’attenuazione della flessione dei prezzi degli energetici non regolamentati (-6,1%). La dinamica dei prezzi dei beni, pur rimanendo negativa, ha registrato un miglioramento, passando dal -0,7% al -0,1%. I prezzi dei servizi hanno mostrato una lieve accelerazione, aumentando dal +2,8% al +3,0%.

    Il combinato disposto di timori di una recessione globale, dati economici negativi e incertezze geopolitiche ha portato a una settimana estremamente volatile per i mercati finanziari internazionali. Le Borse europee e asiatiche hanno subito pesanti perdite, con il settore tecnologico particolarmente colpito. Nonostante ciò, i dati sul mercato del lavoro italiano e sulla produzione industriale offrono alcuni segnali positivi. Tuttavia, le sfide rimangono significative e l’attenzione degli investitori è rivolta alle prossime mosse delle banche centrali e agli sviluppi geopolitici, che continueranno a influenzare i mercati nel breve termine.

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    Editoriali L'Editoriale

    Se domanda e offerta si disallineano

    La riforma della filiera formativa tecnologico-professionale secondo il modello 4+2 è legge. E il definitivo via libera da parte della Camera arriva in concomitanza della pubblicazione di uno studio, condotto da Prometeia e Legacoop, sul disallineamento tra domanda e offerta di lavoro nel nostro Paese: una indagine che probabilmente richiede al Governo uno sforzo ulteriore per evitare che tanti giovani e meno giovani restino ai margini del mercato del lavoro soprattutto nel Mezzogiorno.

    I dati sono inquietanti: di qui al 2030, per effetto del calo demografico, mancheranno all’appello 150mila lavoratori l’anno con la conseguenza che la platea degli occupabili si ridurrà di circa 805mila unità. Altrettanto preoccupante è la statistica riguardante le difficoltà nel reperire personale: nel 2023 il 45% delle assunzioni pianificate era difficile da portare a termine, con sensibili differenze; per i lavoratori a basso livello d’istruzione, il problema è la numerosità perché sono più del 50% rispetto alla domanda; per quelli ad alto livello d’istruzione, invece, il problema è il disallineamento tra la loro specializzazione e quella richiesta dal mercato. E poi c’è il problema dei Neet: dopo la Romania, l’Italia ha la più alta percentuale di giovani che non studiano né lavorano, con punte preoccupanti in regioni meridionali come Calabria, Sicilia e Puglia.

    In questo contesto si inserisce la riforma Valditara che rivede in via sperimentale i percorsi formativi degli istituti tecnici e professionali in quattro anni di studi superiori, agganciandoli al percorso biennale degli Its che hanno l’obiettivo di formare tecnici di alta specializzazione. Il diploma, però, consentirà anche l’accesso all’università o direttamente al mondo del lavoro. La filiera introdotta a partire dal prossimo anno è costituita da specifici percorsi sperimentali quadriennali del secondo ciclo di istruzione e dai percorsi formativi degli istituti tecnologici superiori (Its Academy), oltre ai percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFp) e dai percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts). Si prevedono il rafforzamento delle competenze nelle materie di base, dove i rendimenti sono più bassi per gli studenti degli istituti tecnici e professionali, e l’ampliamento delle competenze specialistiche, con maggiori attività di laboratorio, incremento delle attività in azienda e presenza tra i docenti anche di esperti provenienti dal mondo del lavoro. Nell’ambito della filiera, Regioni e Uffici scolastici regionali possono stipulare accordi per integrare e ampliare l’offerta formativa dei percorsi sperimentali e dei percorsi di istruzione e formazione professionale, in funzione delle esigenze specifiche dei territori.

    Si tratta di una riforma tanto coraggiosa quanto necessaria, se si considera che la mancanza di manodopera è il primo problema per lo sviluppo aziendale, ben davanti ai costi delle materie prime, e in alcuni settori e territori lambisce addirittura il 60%. Ecco perché, come precisato dai vertici di Legacoop, occorre un cambio di mentalità: istruzione, formazione, politiche attive del lavoro sono la soluzione sia ai problemi delle persone sia del sistema produttivo. Perciò sono indispensabili interventi per adeguare le competenze alle necessità del mondo del lavoro e un approccio pragmatico e non ideologico al tema dell’immigrazione: la riforma Valditara è un primo passo, ma adesso al Governo tocca fare il secondo. Nell’interesse di tutti, a cominciare dai giovani del Sud.

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