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Editoriali L'Editoriale

Non banalizzate il dibattito sulle riforme

È passata una settimana da quando anche la Regione Puglia – dopo la Campania, l’Emilia-Romagna, la Toscana e la Sardegna – ha dato il via libera alla richiesta di referendum abrogativo per la legge nazionale sull’autonomia differenziata, fortemente voluta dalla Lega e accettata, con tiepido entusiasmo, dalle altre forze del centrodestra. Il Consiglio regionale della Puglia ha votato a favore, nonostante il parere contrario espresso nei giorni precedenti dalla Commissione che si occupa proprio delle riforme. Certo, restano da individuare i delegati incaricati di presentare formalmente il quesito referendario, ma con l’adesione della Puglia tutte e cinque le Regioni a guida progressista si sono schierate contro la riforma disegnata dal ministro Roberto Calderoli e approvata a maggioranza dal Parlamento.

Fin qui tutto chiaro, così come era scontato questo “allineamento celeste” delle amministrazioni regionali di centrosinistra. Solo che anche questa volta, come è capitato in passato in tante occasioni, noi italiani abbiamo trasformato tutta la discussione sul provvedimento politico in un dibattito morale, un tempo si sarebbe preferito dire “ideologico”.

Così anche il tema dell’autonomia differenziata, a prescindere dai rischi reali e presunti che ne possano derivano alla nostra unità nazionale, cuore pulsante della Costituzione repubblicana, all’esasperazione delle disuguaglianze ataviche che zavorrano lo sviluppo uniforme dei territori, è diventata sin da subito l’alibi perfetto per una contrapposizione di piccolo cabotaggio. Dall’essere guelfi contro ghibellini, comunisti contro democristiani o semplicemente innocentisti contro colpevolisti, siamo saltati a piè pari in una nuova e irrilevante dicotomia tra leghisti veri, presunti o di riflesso, promotori e fautori del progetto dell’autonomia, e deluchiani, ovvero discepoli del presidente della Campania Vincenzo De Luca, capopopolo irruente e oppositore della norma. Una legge approvata probabilmente più per dare in pasto ai propri elettori una parvenza di efficientismo che per un’ampia e condivisa visione di adeguare ai tempi e alla società contemporanea le competenze tra i diversi livelli istituzionali del Paese. Ecco, il banco di prova dell’autonomia differenziata invece di produrre un dibattito intenso, di rigenerare le palestre formative dove far crescere la nuova classe dirigente, in particolare al Sud, si è ridotto a una sterile contrapposizione tra leghisti da una parte e deluchiani dall’altra, tra nordisti che vogliono tenersi strette le loro risorse fiscali e meridionalisti straccioni, che sbraitano per l’ennesimo furto subito.

Nella più nobile delle tensioni, invece riusciamo a dividerci tra progressisti, interessati alla bandiera dell’unità nazionale, dimenticandoci che qualche anno prima avevamo indossato la maglietta sulla quale oggi vomitiamo, e pericolosi fascisti, interessati a penalizzare il Sud e le sue popolazioni. Questo è il nostro limite più grande, ma è anche il limite più evidente che la riforma ha fatto riemergere e che ci penalizzerà fino a quando, come italiani e meridionali, non saremo capaci di mondare una volta e per tutte.

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Non era meglio confermare le vecchie Zes?

Il Mezzogiorno d’Italia costituisce una anomalia unica nel contesto dei Paesi sviluppati: le otto regioni meridionali costituiscono il 44% del territorio nazionale ed ospitano il 35% della popolazione, ma il reddito pro capite dei cittadini meridionali si attesta solo al 55% di quello dei connazionali del Centro-Nord.

Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna registrano un pil pro capite inferiore al 75% della media europea. Questa anomalia, che definisce l’assetto dualistico dell’economia italiana, è ormai un problema europeo, in quanto lo squilibrio italiano può costituire una seria minaccia per la stabilità futura dell’intera unione monetaria. Questa preoccupazione ha spinto Bruxelles a concedere cifre generose all’Italia nell’ambito del Pnrr, stabilendo un vincolo di spesa a favore del Mezzogiorno di almeno il 40% dei finanziamenti totali. L’obiettivo di rendere questa vasta area più competitiva e attrattiva per gli investimenti è stato ulteriormente rafforzato dall’istituzione di Zone economiche speciali nel Mezzogiorno.

Nel 2017 ne furono istituite otto (Abruzzo, Adriatica-interregionale Puglia-Molise, Calabria, Campania, Ionica-interregionale Puglia-Basilicata, Sicilia Occidentale, Sicilia Orientale, Sardegna) individuando le aree di interesse sulla base di determinati requisiti, perfezionati dal Dpcm 12 del 2018.

La Zes è di norma composta da territori quali porti, aree retroportuali, piattaforme logistiche e interporti, non può comprendere zone residenziali. Sotto questa definizione ricadono, nel Mezzogiorno, le aree portuali di Napoli, Gioia Tauro, Bari, Taranto, Palermo, Augusta e Cagliari. La logica del provvedimento del 2017 “era” quella di concentrare investimenti in aree dotate di una struttura infrastrutturale, potenzialmente destinate a essere poli di sviluppo.

“Era”: perché il governo Meloni con il decreto 124/2023 ha istituito la Zes unica estesa a tutti territori del Mezzogiorno, eliminando il modello dei poli di sviluppo. Il territorio su cui si applicano le agevolazioni previste per le imprese che investono nelle Zes passa dallo 0,4% della superficie complessiva del Mezzogiorno al 95%, escludendo zone dell’Abruzzo. La Zes unica diventa così la zona economica speciale più grande d’Europa per estensione territoriale e per popolazione residente. Le agevolazioni fiscali e finanziarie per le imprese che investono nella Zes sono costituiti principalmente da crediti di imposta per gli investimenti in beni strumentali destinati a strutture produttive effettuati dalle imprese ubicate nelle regioni appartenenti alla Zes, finanziamenti agevolati gestiti da Invitalia, e la decontribuzione per le nuove assunzioni delle microimprese operanti nella Zes. La scelta del governo ha assimilato la Zes a un’area a fiscalità differenziata, cioè a un regime di incentivi che ha caratterizzato le regioni meridionali fin dagli anni Cinquanta e che certo non ha alcuna pretesa innovativa.

Le Zes nascono invece con specifiche finalità di sviluppo, articolandosi in Zone franche, aree esenti da imposte che offrono strutture per lo stoccaggio e la distribuzione commerciale soprattutto orientata all’esportazione, in Parchi industriali, aree destinate allo sviluppo industriale con dotazioni infrastrutturali e in Parchi tecnologici gestiti da soggetti specializzati di alta formazione il cui scopo è promuovere innovazioni e sostenere la competitività delle imprese. La legge del 2017 puntava alla valorizzazione dei porti meridionali inserendoli nei grandi nodi intermodali che caratterizzano il commercio transcontinentale, avvicinandosi molto al modello della Zona franca, con l’obiettivo di trasformare il sistema portuale del Sud in un fulcro degli scambi tra l’Europa, i Paesi asiatici e del Nord Africa: una strategia che avrebbe potuto assicurare nel medio-lungo termine un’opportunità di sviluppo per tutto il Paese. La migliore soluzione sarebbe stata quella di mantenere le otto Zes portuali previste dalla legge del 2017, introducendo ulteriori semplificazioni burocratiche e fiscali, definendo altre aree di intervento dove implementare Zes con altri obiettivi. La Polonia, che vanta best practice in questo ambito, ha ben 14 Zes, istituite nel 1994, che hanno contribuito notevolmente alla crescita del Paese. In questo modo si sarebbero mantenuti i poli di sviluppo portuali come assi privilegiati di intervento e si sarebbero incoraggiati gli investimenti in altre zone.

La Zes unica rischia di non dare risultati rilevanti, anche per la scarsità di finanziamenti. Il 22 luglio l’Agenzia delle Entrate ha anticipato che il credito d’imposta per le imprese che hanno effettuato investimenti per l’acquisto di beni strumentali in tutte le regioni meridionali sarà drasticamente ridotto dal 60% al 17%. Inoltre le risorse stanziate dal Pnrr pari a 1,8 miliardi valgono solo per gli investimenti effettuati fino al 15 novembre 2024 e quindi destinate alle imprese già insediate, lasciando nell’incertezza gli investitori potenziali. Così la Zes unica rischia di aggiungersi alla lunga lista di insuccessi che da trent’anni caratterizzano la politica di sviluppo per il Sud.

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